Sola. Triste. Chiusa in se stessa. Forse lasciata, forse mollata, forse sedotta e abbandonata.
Se ne stava lì, sul marciapiede, e nessuno se la filava. Uno sguardo, un occhio di riguardo, una carezza virtuale: niente di niente.
Era immobile, rigida, tesa, come offesa, come ferita, come segnata.
La gente le passava accanto, quasi infastidita dalla sua silenziosa presenza. Eppure non stendeva il braccio, non allungava la mano, non chiedeva l’elemosina. Non faceva male a nessuno. Ci mancava solo che qualcuno la gettasse a terra, e – c’era da scommetterlo - nessuno le avrebbe dato una mano per risollevarla.
Chissà quali pensieri la attraversavano, quali sogni la sfioravano, quali ricordi la investissero. Chissà con chi era uscita l’ultima volta, chissà che cosa le era stato promesso, chissà chi l’aveva presa per mano, chissà chi poi l’aveva piantata lì.
Piccolina, bianca e arancione, tutt’altro che allegra. E magra, scavata, scheletrica.
Era una bicicletta, una Mobike, una di quelle da condividere, “bike sharing”, si dice così. A Milano, parcheggiata in via Monte Bianco dove il parco non c’è, solo alberi che in questi giorni si stanno spogliando senza più freni.
Il sistema che governa la Mobike di via Monte Bianco e tutte le sue sorelle, pare, è rivoluzionario: si prende la bici, poi la si lascia dove si vuole, senza la premura di infilarla in una rastrelliera, al sicuro, in compagnia. Più comodo, più pratico, più svelto. Sarà. Ma nessuno deve avere pensato a lei, la bici. Sembrava dispersa, perduta, naufragata. Sembrava senza casa e senza tetto. Sembrava senza famiglia. E sembrava senza un perché.
Sola. Triste. Chiusa in se stessa. Stava aspettando un passaggio, un aiuto, forse un favoloso cavaliere. Adesso l’ho riconosciuta: quella bici era Cenerentola.
Marco Pastonesi