Indosso una maglia gialla, controllo la pressione delle gomme, riempio la borraccia alla fontana. La prima pedalata è elefantiaca, la seconda da bradipo, la terza da pentito. Sono sei giorni che non pedalo, questa bicicletta non sembra essere più la mia, e io sono rigido e legnoso come un cavallo a dondolo.
Perché gli ultimi cinque giorni li ho trascorsi a pedalare, però a piedi, e a esplorare, però a passi. Umbria, il Cammino dei protomartiri. Spazi e silenzi e solitudini, quello che cercavo, quello che volevo, e quello che ho trovato. Poche parole dette, molte pensate, alcune rimangiate.
L’importante – in bici - è allontanarsi da casa, il resto viene da sé: ritmo, andatura, equilibrio, magari anche armonia, se non fuori, ciclisticamente, esteticamente, almeno dentro, personalmente, eticamente. Biciclettare è sinonimo di confidare, confessare, chiarire, credere, controllare, e stiamo elencando soltanto i verbi che cominciano con la c.
A piedi i pensieri camminano, in bici corrono. A piedi si calcola a ore, in bici a chilometri. A piedi i segnali sono fatti di colori, in bici di lettere. A piedi costa niente fermarsi e allungarsi per more e fichi. A piedi, forse prima che in bici, si sciolgono testa e mente, cuore e anima. La mente sta alla testa come l’anima sta al cuore. O no? O no.
A piedi si salutano tutti, in bici no. Basterebbe poco: un ciao, un buongiorno, un gesto con la mano, un cenno con il capo, un fischio. E’ come una forma di solidarietà, un segno di appartenenza, un codice di gruppo. Se il mio saluto viene ignorato, ci rimango male.
La mia pedalata non sarà mai rotonda, mi accontento di quella ovale, da rugbista, cioè volonterosa. Me lo dico sempre: io alleno la mia forza di volontà. Finché, finalmente, come in un cinema all’aperto, scorrono immagini e ricordi, propositi e impegni. Mi aggrappo al manubrio, e il manubrio mi offre sostegno, mi restituisce vigore, mi rimanda all’infanzia, mi detta gli ordini, mi impone l’ordine. Ha un bel nastro rosso, nuovo, fiammante.
Marco Pastonesi