Va in fuga. La fuga è un gesto di coraggio e una sfida alla paura, un patto di speranza e un atto di disperazione, un’allergia alla difesa e un’allegria per l’attacco, un bisogno di aria e una creazione di vento.
Poi la fuga, come tutte le fughe in cui non si è soli con se stessi, si trasforma da alleanza in tradimento, da complicità in inganno, da solidarietà campagnola in guerriglia urbana. E così cede alla tentazione e all’ispirazione, e va in fuga anche dai fuggitivi. Insiste, resiste, vince. Ed è la prima vittoria – Giro d’Italia Under 23, tappa di Osimo - di un ruandese in Italia. A questo livello, anche la prima di un ruandese in Europa. Joseph Areruya – il cognome sa tanto di canto ecclesiastico – entra nella storia.
A seimila chilometri in linea d’aria in Ruanda, da Kigali a Rwamagana, si scatena una festa nazionale. Ma anche a 383 chilometri di distanza autostradale in una casa di Negrar, colline vinicole di Verona, divano e tv, si celebra l’impresa di Areruya in commozione cardiaca e gemellaggio sentimentale. Perché la lunga rincorsa per questo primo enciclopedico trionfo è cominciata esattamente qui. Nella casa di Carlo Scandola.
Scandola ha 75 anni e in carriera si è distinto, e ha gareggiato, più da idraulico che da corridore. In Italia e, soprattutto, all’estero, nei Paesi Arabi, quando là il ciclismo era più o meno come vedere gli astronauti sulla Luna: effetti speciali televisivi. La corsa – quella più importante, quella della vita – ha portato Scandola ad adottare due orfani ruandesi, un ragazzo (Zinga, in casa) e una ragazza (Clementina, a distanza), e poi ad appassionarsi a tutti quei ruandesi che, a ruote, a pedali e a pedalate, cercavano di farsi strada. E ha cominciato, da gregario, a sue spese, a popolare il Ruanda di biciclette.
Biciclette da corsa: usate, usate poco, usate una volta e basta, usate bene, usate e restaurate, usate e resuscitate, usate e risorte, usate e regalate, usate e pagate ma poco o niente, poco o pochissimo, poco o abbastanza poco, di artigiani e industrie, di corridori e amatori, perfette per cominciare a inseguire un sogno, e il sogno era, prima o poi, vincere. E così quelle Chesini e quelle Grandis, ma anche quelle Cipollini e quelle Coppi, quelle Colnago e quelle De Rosa, con l’identico percorso ma nella direzione opposta, secondo lo stesso canale umanitario, sono emigrate in Africa, all’Equatore, nel Paese delle mille colline, fino a tutti gli Areruya che non aspettavano altro per pedalare. E fra una bici e l’altra, maglie, calzoncini, guanti, scarpe.
La Federazione ciclistica ruandese rimborsava Scandola con modalità africane: dilatando i tempi e restringendo le cifre. Ma amen. Perché quell’Areruya, abbagliante nello sguardo, brillante nel sorriso, folgorante nella felicità, ha ripagato Scandola con gli interessi.
Marco Pastonesi