La mia bicicletta è nera, antipanico e antidiluviana, da città. Attraversa viali e piazze, esplora biblioteche e supermercati, si avventura in ospedali e scuole, approda in musei e officine. Stavolta festeggia il Giro d’Italia.
Il caldo è umido, il clima africano. Lotto è deserta, Pagano distratta, Cadorna animata, Cairoli eccitata, Cordusio infuocata. Lego la bici alle sbarre della metropolitana, e questi arrivederci sanno di addio.
Carrozzoni e bancarelle, milioni di watt e miliardi di decibel, sandali e sneakers, lingue e accenti, coni e coppette, lattine e bottigliette, piccoli omaggi e grandi attese, e il pass da giornalista apre ancora la strada.
Piazza del Duomo è guglie, e le guglie sembrano le montagne di questo Giro d’Italia, Etna e Mortirolo, due volte lo Stelvio, Pordoi e Piancavallo, il ciclismo è gotico quando lo si considera su un’altimetria alpina.
Sono qui che aspetto Fonzi, ha la faccia aguzza, la barba disordinata, il torace piatto, gli occhi svegli, la consapevolezza di avere realizzato un sogno fanciullesco, esaudito un antico desiderio, estinto un obiettivo rotondo.
Poi respiro la tappa a cronometro cercando numeri che confermino sensazioni, numeri che compilino classifiche, numeri che regalino ordini, numeri che concludano storie, che ricamino romanzi, che arricchiscano biografie.
Di Tom Dumoulin, Gino Bartali avrebbe detto “troppo bello per fare il corridore”. Nairo Quintana ha un’età indefinibile, c’è perfino un momento in cui sembra avere ventisette anni. Vincenzo Nibali è un vecchio squalo di terra.
La mia bicicletta nera è ancora lì, così antipanico e così antidiluviana. Vado in fuga fra le rotaie e su un lastricato. Lei stride, cigola, sobbalza, inciampa, resiste. Stavolta ha conosciuto nipoti più giovani, più leggere, molto più ricche e molto più tecnologiche. Ma ha l’aria di essere, se non felice, contenta così.
Marco Pastonesi