Con quel nome, Geraint, con quel cognome, Thomas, con quell’anagrafe, Galles: un destino da rugbista. Perché il rugby, in Galles, è educazione e religione, campanile e pub, eredità familiare e patrimonio genetico, senso di appartenenza e spirito di comunità. Si dice che inglesi, scozzesi e irlandesi siano nati con il pallone ovale nella culla, ma che i gallesi abbiano qualcosa in più: perché concepiti su un campo da rugby.
Così Geraint Thomas sarebbe stato, diventato, rimasto rugbista. E infatti frequentava una scuola di rugby. Finché un certo Mr Williams – metà dei gallesi si chiama Thomas, l’altra metà Williams… -, che lo aveva capito nel profondo, gli concesse l’autorizzazione a lasciare la scuola di rugby e dedicarsi al ciclismo. E Geraint, nella lista delle persone da ringraziare, non si dimentica mai di Mr Williams. E aggiunge, con Welsh humour, che grazie a questa scelta “George North (trequarti ala della nazionale gallese di rugby, ndr) dovrebbe ritenersi fortunato”.
Lo chiamano G, e basta, perché la pronuncia di Geraint, per chi non è gallese, svaria. Il signor G è di Cardiff, ha il titolo di baronetto grazie ai suoi successi olimpici (Londra 2008 e Pechino 2012 nell’inseguimento a squadre su pista) e forse anche mondiali (altri tre ori nell’inseguimento a squadre) e corre per Sky. E siccome quest’anno ha vinto, oltre a una tappa alla Tirreno-Ariatico, anche una tappa e la classifica finale al Tour of the Alpes (l’ex Giro del Trentino), è tra i favoriti del Giro d’Italia. Compirà 31 anni il 25 maggio, giorno della Moena-Ortisei, la cavalcata dei Monti Pallidi. Sognando un tramonto rosa.
“The World Of Cycling According To G” (Quercus, 374 pagine, 8,99 sterline), il mondo del ciclismo secondo G, è la vita dei corridori, l’avventura delle corse, l’ambiente delle squadre, l’atmosfera dei paesi, le regole del mestiere, il bello della strada, il fascino della pista. C’è anche molto di sé. La sua prima bici: “Una mountain bike che si chiamava The Wolf (il Lupo), sul manubrio era montata una scatoletta che faceva un grandi rumori: le sirene della polizia, dell’ambulanza, dei pompieri. Facevo gare al parco, giocavo a rugby o a calcio con il mio fratellino e mio padre e poi tornavo a casa”. La sua prima bici da corsa: “Una Giant, con il cambio sul tubo obliquo e le gabbiette ai pedali, un regalo dei miei genitori, e l’amavo. Era troppo grande per me, ma la cavalcavo come se facessi una tappa del Tour de France”. La prima volta su una bici da pista: “Piuttosto spaventosa. Senza freni? Un solo rapporto? Ma che cos’è questa?”. La prima lunga uscita: “Cominciò a nevicare. Gli altri mollavano il gruppo e tornavano a casa. Lo avrei fatto anch’io volentieri, ma non avevo idea di dove fosse casa mia. Se avessi lasciato gli altri, sarei finito sotto un ponte e avrei dovuto aspettare la primavera”. La prima vittoria: “A 12 anni. La prima sensazione fu uno shock. Ho vinto! A quel tempo il mio rivale era Alex Burridge. Non dimenticherò mai il suo nome. Mi aveva battuto tre volte, la quarta gli ero andato vicino, alla quinta ho vinto io”.
(fine della prima puntata – continua)
Marco Pastonesi