Coppa Bernocchi 1971. La prima parte dedicata a Motta e Reybrouck, la seconda a Gimondi, in fuga, una ventina, anche Merckx con due gregari. Una giornata da gregario. All’ultimo giro si avvicina a Gimondi e gli chiede come vuole impostare la volata. Ma Gimondi, a sorpresa, gli dice di pensare, per una volta, a se stesso: “Tu fai la tua, io mi piazzo”.
E’ a questo punto che Virginio Levati studia il gruppo con altri occhi. Quelli non del gregario, ma del velocista. C’è Patrick Sercu, il re delle volate, c’è Wilmo Francioni, che in volata non è fermo, c’è Paolini, che quando è in forma fa paura, e c’è anche Simonetti, che è grande e grosso, e che di solito parte lungo. Levati pensa che se si mette alla ruota di Sercu, sempre che riesca a farlo, al massimo arriva secondo, perché non sarà mai capace di uscire dalla sua scia e, vento in faccia, superarlo. Ma se si mette alla ruota di Simonetti, chissà, forse, magari, chi può dirlo, non si sa mai.
Ultimo chilometro. La volata si sdoppia. Sulla sinistra parte lungo Merckx, con Sercu alla ruota, e sulla destra, come previsto, ai -500, Simonetti, con Levati alla ruota. Quando Simonetti perde velocità, Levati esce allo scoperto, prende una decina di metri di vantaggio, e gli basta conservarne un soffio per battere, nonostante il suo micidiale colpo di reni, Sercu, Francioni, Gimondi e Merckx, vincere la Bernocchi e conquistare la prima vittoria da professionista. Che poi sia la prima e ultima, amen. Nella foto che lo consegna alla storia, Levati che sta per alzare le braccia al cielo sembra finalmente gigantesco e Merckx, alle sue spalle, insolitamente minuscolo.
Come ho battuto Sercu e Merckx. Levati ha il senso dell’umorismo e accetta di raccontare la sua giornata nata da gregario e conclusa da campione, l’altro giorno, in un agriturismo di Cambiago, durante un pranzo di vecchi corridori. Lui, milanese di Tribiano ma residente a Pantigliate sulla vecchia Paullese, 72 anni il prossimo 17 novembre, figlio di un operaio in un forno per laminati e tubi, e di una casalinga, quinta elementare, poi a lavorare in campagna, e sempre una incalcolabile passione per la bici. “Prima corsa, la Coppa Negrini, tre cadute eppure quarto. Prima vittoria, a Brugherio, da esordiente. Primo campionato italiano, quarto, a Pavullo nel Frignano. Il Piccolo Giro di Lombardia, vinto da dilettante. E quattro anni, dal 1969 al 1972, da professionista, i primi due nella Sagit, poi Salvarani e Zonca”. Storia numero 1: “Giro d’Italia 1969, finito in due, sette ritirati per una dissenteria presa bevendo da una fontana malata”. Storia numero 2: “Tour de France 1971, la tappa Grenoble-Orcières in cui Ocana dette 8’42” a Merckx, a metà corsa spaccai il telaio a metà, l’ammiraglia non c’era, inseguii tutto il giorno, arrivai con altri 40 fuori tempo massimo”. Storia numero 3: “Vita da atleta, anzi, da frate, a letto tutte le sere alle nove”. Storia numero 4: “Un’ulcera duodenale, presa alla Praga-Berlino-Varsavia, con la nazionale italiana dei dilettanti, dove avevo vinto anche una tappa, e mai più superata. E a 28 anni cominciai a lavorare”.
Ma a lavorare sempre sulla strada, grazie a una “giratina”, una raccomandazione: segnaletica per il Comune di Milano. Trent’anni. E altri 20 con il Club Levati, riservato ai bambini e poi chiuso, non per mancanza di passione o tempo, ma di bambini. “Il bello del ciclismo? La strada. Il bello dei corridori? Quando il risultato supera la fatica. E quando succede il contrario, cioè quando la fatica supera il risultato, allora è meglio smettere”.
Come ha battuto Sercu e Merckx? Semplice a dirlo, 45 anni dopo: Virginio se li è Levati dalla ruota.
Marco Pastonesi