“Ci sono modi per vincere tutto senza vincere niente. E’ la loro bellezza. Sono momenti di straordinaria emozione e, nel contempo, sono perfettamente inutili. Ci ubriacano di tensione, ci fanno sognare e trepidare, eppure non cambiano nulla… Claudio Chiappucci è stato, ciclisticamente parlando, il più formidabile simbolo di tutto questo… Non ha vinto praticamente nessuna delle grandi corse. Eppure ha vinto tutto. Anzi, ha sbancato”.
Giacomo Pellizzari, in “Il carattere del ciclista” (Utet, 266 pagine, 14 euro), fa la radiografia di 14 campioni, fra cui il Diablo: frizzante, imprevedibile, infuocato, in una parola “scriteriato”, così come intitola il capitolo a lui dedicato. E Chiappucci era lì, ieri sera, da Upcycle, a Milano, per la presentazione del libro con l’autore e il giornalista Stefano Rodi. Il solito Chiappucci. Imprevedibile, appunto. Tanto da ritenere inutile leggere anche una sola riga del suo ritratto. Ma generoso di ricordi, racconti, giudizi.
Quando era un ragazzo: “Volevo fare l’ingegnere elettronico. Poi mio padre mi disse di provare a fare il corridore, e mi sono fermato a perito elettronico”. Quando era un dilettante: “L’ultimo anno, con 11 vittorie, ero fra i migliori”. Quando era un neoprofessionista: “Ho cominciato da gregario. Poi, fra cadute e infortuni, ho perso quasi un anno. E al quarto anno, senza credenziali, ho dovuto inventarmi qualcosa, se no sarei stato la fotocopia di tutti”. Sulla filosofia di vita: “Un corridore forte mi disse che, secondo lui, contava solo il palmarès. Gli risposi che, secondo me, contavano la gente e le pubbliche relazioni”. Sulla filosofia di corridore: “Vincere, ma alla mia maniera”. Sulla sua strategia: “Attaccavo. E quando attaccavo, non è che il cervello fosse a zero. Sapevo che se io faticavo davanti, faticavano di più gli altri dietro”.
Su Hinault: “Grande corridore, uno dei pochi a vincere grandi giri e la Parigi-Roubaix. Ma come corridore gli mancava il carisma”. Su Moser e Saronni: “Perché loro potessero vincere il Giro d’Italia, avevano tolto tutte le salite”. Su Pantani: “Era caparbio, puntiglioso, perfezionista. Almeno all’inizio, quando eravamo in squadra insieme. E quando eravamo in camera insieme, perché gli altri non volevano stare con lui, dicevano che era un giovane che dava fastidio. Tanto appariva sicuro sulla bici, perché sapeva quello che voleva, tanto era insicuro giù dalla bici. Nel Giro del 1994 lui vinse all’Aprica e a Merano, ma io arrivai secondo e terzo. Avrei voluto rimanere in squadra insieme con lui, anche se avevamo le stesse caratteristiche, ma tutti volevano che divorziassimo, e così fu”.
Sulla tappa del Sestriere al Tour de France 1992: “Dei 254 chilometri di corsa, ne feci 192 da solo. Avevo il tempo per pensare e riflettere. Anche per riflettere su una cagata del genere, partendo da così lontano. Ma volevo vincerla fin dalla partenza, e poi mi trovai allo sbaraglio. Quando da radiocorsa sentii che Bugno aveva messo sotto la sua squadra per inseguirmi, ebbi un’accelerazione di adrenalina. Chi mi ama mi segua, dissi ai compagni di fuga. Mi seguì solo Virenque, che non tirava perché il suo compagno di squadra Pascal Lino era in maglia gialla. Io ti porto un po’ a spasso, gli dissi, ma dentro di me pensavo che fosse meglio essere solo che male accompagnato. Nel finale avevo il vento in faccia. Ero sconsolato, impaurito, innervosito, stanco. Ma tenni duro”.
Marco Pastonesi