La bici era vincente. Una Bottecchia con cui Pasqualino Fornara – un secondo alla Vuelta, un terzo al Giro, un quarto al Tour, quattro vittorie al Giro di Svizzera e una al Romandia – aveva corso il Giro d’Italia del 1953, quello dello Stelvio, quello di Coppi contro Koblet, quello in cui lui era arrivato terzo. Da Fornara la Bottecchia era emigrata a un dilettante, Oronte Sarzi Sartori, e nel 1956 a lui, per 20 mila lire, una cifra.
Celso Zanazzi aveva 16 anni e sognava di fare il corridore. Papà Pietro agricoltore: mais, frumento, bietole, orzo, a monoculture, allora si usava così. Mamma Giacomina, la sorella Pierina, il fratello Luigi, un’altra sorella, Valentina, morta a sei anni, e poi lui, l’ultimo dei quattro. A Pomara di Gazzuolo, nella Mantovana: fabbrica di nebbia d’inverno e di zanzare d’estate, e officina di campioni, anche in primavera e in autunno, da Learco Guerra a Renzo Zanazzi, maglia rosa nel 1947, anzi, ai fratelli Zanazzi, Renzo Valeriano e Mario, suoi cugini. Zanazzi: pare che, ai tempi dei Gonzaga, il cognome sia nato dall’incrocio matrimoniale fra uno della famiglia Zani e una della famiglia Azzi. E Celso: in ricordo di un altro cugino, Celso, morto giovane, e qui si narra come il nome risalga a un antico romano ricco, un patrizio beone, incapace di resistere al piacere del vino.
Nella scia della “Locomotiva Umana” e sull’onda dei cugini professionisti, Celso stravedeva per il ciclismo. La prima bici era da donna: “Quella della mamma. La facevo volare, e volavo anch’io, facevo delle curve da deficiente, tanto che, a forza di voli, non era più una bici, l’avevo ammucchiata, imballata”. La seconda bici era da uomo: “Mi serviva per battere gli amici. E li battevo”. Con la Bottecchia appartenuta a Fornara, Celso si attaccò il primo dorsale: “Il 14 aprile 1957. Allievi, a Crema, un circuito, volata di gruppo, terzo. La prima vittoria a Fiesse, provincia di Brescia, volata di gruppettino, primo. Gli altri avrebbero fatto una certa carriera, io no”.
Eppure Celso - l’altro Zanazzi, l’ultimo degli Zanazzi - aveva dei numeri. Velocista vincente, temeva le salite, ignorava le cotte, finché ne prese una, educativa, formativa, esemplare: “Rimasi a secco, mi piantai a quattro chilometri dal traguardo, per arrivarci ci misi una mezza vita, non andavo più avanti, mi sembrava che tutto si fosse ingigantito, a cominciare dai corridori che mi precedevano e dagli altri che mi superavano. Le loro ombre erano gigantesche, le loro bici mastodontiche, la mia fatica esagerata”. Da dilettante “Zanass” conquistò due o tre vittorie, collezionò diversi piazzamenti, poi venne selezionato con altri tre o quattro mantovani per un collegiale a Salò, “ma qui un problema alle tonsille mi provocò un guaio al cuore”. Smise. Ricominciò a correre da amatore e ritrovò, con la volata, anche le vittorie e i piazzamenti: “E soltanto a pane e acqua”.
Celso Zanazzi, 75 anni, ha tre bici eroiche, una è ancora quella di Fornara, “ma con guarniture più recenti”, le altre due sono state costruite da Pietro Serena, artigiano a Brescia, “anche per professionisti”. “Chi si affida alla religione, chi si dedica al lavoro, io ho la bici. Pedalare mi aiuta: quando ho i nervi, mi distende, e quando ho le preoccupazioni, me le fa passare, e quando mi sento soffocato dalle miserie quotidiane, mi spinge verso il bello e il buono”. Insomma, verso l’alto. E qui non si parla di salite.
Marco Pastonesi