“Ottantacinque – confida – non sono pochi, ma neanche poi così tanti, l’età media si è allungata, e a questo processo di sano invecchiamento vorrei contribuire anch’io il più a lungo possibile, sperabile e immaginabile. E poi un segreto c’è: non bisogna chiamarlo invecchiamento ma esperienza. E qui avrei ancora parecchio da fare, da imparare, da lavorare. Ho sentito dire che c’è un italiano che è espertissimo: ha la bellezza di 111 anni. Io, al suo confronto, sono quasi un ragazzino, sono ancora uno scolaretto”.
Dino Zandegù, domani, compirà la bellezza di 85 anni (“Bellezza, a essere sinceri, neanche quando ne avevo 20”). Il suo ciclismo da corridore, quello degli anni Sessanta e Settanta, sembra preistorico (“Quando, a cinque chilometri dall’arrivo di un Giro del Veneto dei dilettanti frenai, scesi dalla bici e salutai papà, mamma e tutte e sette le mie sorelle, e i primi inseguitori, su cui avevo tre minuti di vantaggio, mi superarono, Gino Bartali, che faceva il talent scout per la San Pellegrino, mi disse che ero tutto sbagliato e tutto da rifare. Temo di non averlo fatto”). Il suo ciclismo da direttore sportivo, quello degli anni Ottanta e Novanta, sembra cinematografico (“Quando, a un Giro dell’Appennino, ritrovai fra i ritirati il mio corridore Johnny Fregonese, cui aveva ordinato di rimanere alla ruota del favoritissimo Gibì Baronchelli, e lui mi disse che era stato di parola e aveva obbedito alla lettera, ritirato Gibì, si era ritirato anche lui, e allora non potei che dargli una pacca sulla spalla e fargli i complimenti”). Il suo ciclismo da capo della carovana pubblicitaria, quello degli anni Duemila, sembra plateale (“Un Giro d’Italia musicale e stradale, gioioso e giocoso, circense e cistercense, itinerante e strombazzante”).
Un paio di anni fa stavamo lavorando al suo libro. Lui non voleva farlo. Forse temeva i colleghi: “Penseranno che mi sono montato la testa”. Forse temeva l’impegno: “Non arriverò mai a cento storie”. Forse temeva anche la memoria: “Ogni tanto mi fa degli scherzi”. Dopo laboriose trattative finalmente concordò sul sottotitolo: “Cento storie vere al 90 percento”. Più complicato fu accordarsi sul titolo: “Se cadono tutti vinco io”. Fu indispensabile il via libera di Lalla, sua moglie, che non ha potere consultivo ma decisionale. Poi al libro si è affezionato a tal punto da diventare il più dotato, il più ostinato, il più efficace venditore della rete italiana della casa editrice Ediciclo. Al risotto di Masone prima del Turchino lungo la Milano-Sanremo, alla partenza della Coppa Agostoni, al traguardo della Coppa Bernocchi. In chiese sconsacrate, in biblioteche civiche, in ristoranti con le vecchie glorie. A volte attrezzandosi con sgabello e tavolino, ombrello e mantellina, oltre a stilografica e lapis. In questo Giro, ad Asiago, dove giocava quasi in casa, ha realizzato il tutto esaurito. L’ho visto con i miei occhi in azione: asfissiante come uno sciame di api, machiavellico come un sudoku, convincente come Mike Tyson. Sul lunotto posteriore della sua macchina ha attaccato l’adesivo della copertina del libro, e grazie a questo espediente è riuscito a farsi riconoscere anche in autostrada, fermarsi a una piazzuola di sosta breve e piazzare un paio di copie al volo, arricchite da dedica personalizzata e firma certosina.
Zandegù, furbacchione, finge di respingere gli elogi, sostiene di non avere alcun merito e spiega che invece la sua grande battaglia l’ha perduta. Rappresentante – anzi, battitore libero - dei vini di Francesco Moser, grazie a una sottile e lodevole opera di diplomazia Dino era riuscito a persuadere nientemeno che Beppe Saronni ad acquistare cartoni di Teroldego e Lagrein, Gewurztraminer e perfino il brut 51,151, il tutto regolarmente e periodicamente, finché un paio di esplosive interviste ai due sul “Corriere della Sera” hanno bruscamente interrotto le vendite. Altro che Trump, altro che dazi! “E l’unico a rimetterci – si lamenta ancora Zandegù – sono stato io. Proprio io che non c’entravo nulla”.