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L'ORA DEL PASTO. LA LEZIONE DI SANTE: «COSA MI HA INSEGNATO IL CICLISMO? IL RISPETTO»
di Marco Pastonesi | 28/02/2024 | 08:12

Il salone municipale trasformato in una sala stampa. Ottanta studenti convertiti in giornalisti. Domande e risposte come scatti e controscatti, come attacchi e contrattacchi. E’ successo l’altra mattina, a Ripa Teatina, il paese di Rocky Marciano (e l’incontro è avvenuto nelle manifestazioni promosse dal Festival Rocky Marciano), ma il paese anche – almeno nelle strade di allenamenti quotidiani - di Sante Di Nizio, nove anni da professionista in giro per il mondo. E Sante ha pedalato, stavolta a parole, a tutta.

Degli inizi: “A nove anni. Papà, ex calciatore, con la passione per il calcio. Fu la mia prima ribellione”; “La prima bici era un ferrovecchio”; “La prima corsa venni doppiato e una gomma mi scoppiò”; “Avrei dovuto capire subito che sarebbe stata dura, invece mi appassionai”.

Delle bici: “La più bella? Una Pinarello. La più scarsa? Quella del mio primo anno da professionista. Dalla prima all’ultima, quanta evoluzione tecnologica nei materiali, nelle forme, nei pesi”.

Dei dubbi: “Quando mi allenavo e vedevo solo fatica e sacrifici, ma non risultati e gioie. Il giorno in cui mio padre mi disse che non era il mio sport, qualcosa mi scattò dentro. E ricominciai a vincere e divertirmi”; “La tentazione di smettere? Sì, qualche volta, ma la passione era sempre più forte”.

Delle certezze: “Il ciclismo è allenamento, allenamento, allenamento… Il ciclismo è gambe, ma soprattutto testa, testa, testa…”.

Delle corse: “La più bella? Il Presidential Tour in Turchia, da Istambul fin quasi in Siria. Le notti negli alberghi più lussuosi”; “Le più brutte? Temevo le salite, e le corse con le salite pronti-via significano inseguire tutto il giorno”; “Le più dure? In Belgio sono tutte piccole Parigi-Roubaix”; “La più amara? Una tappa della Vuelta Ciclista Chiapas, in Messico, nel 2011: secondo, al photofinish, battuto di un soffio, di un niente, e per colpa mia, perché certo di aver vinto esultai una spanna non dopo ma prima di tagliare il traguardo”; “La più dolce? Una tappa del Presidential Tour in Turchia nel 2008: quarto. Ma siccome il vincitore, l’argentino Maximiliano Richeze, fu poi squalificato per doping, scalai al terzo posto”; “La mia corsa ideale non è ancora stata inventata: tutta in discesa”.

Delle discese: “I più spericolati discesisti non sono quelli in testa alla corsa, ma in coda, pronti a rischiare la pelle pur di non finire fuori tempo massimo”.

Delle volate: “Velocista, aspettavo le volate. L’ebbrezza della velocità, i brividi delle mischie, l’azzardo dei gomiti a gomiti”.

Delle classifiche: “Mio padre mi diceva che la gente guardava soltanto chi era primo e chi ultimo. Così, nelle corse a tappe, appena cominciavo a scendere di posizione, puntavo all’ultimo posto. E spesso ci riuscivo. Come quando conquistai la maglia nera al Giro d’Italia Under 26 o alla Settimana internazionale Coppi e Bartali”; “Una volta la mia ultima posizione era insidiata da un compagno di squadra. Eh no, gli dissi, quel posto è mio”.

Delle cadute: “Tante, troppe. Il mio corpo è tutto segnato. Nudo, sono una carta geografica”.

L’ultima domanda è stata forse la più interessante. Una ragazzina ha chiesto che cosa gli avesse dato il ciclismo. E’ sembrato che Sante non aspettasse altro per ringraziare pubblicamente tutta quella strada vissuta ed esplorata a pedali: “Il rispetto, quello che provavo per compagni e avversari, e che adesso estendo a tutti. La capacità di tenere duro, che allora applicavo sulle salite e adesso nel lavoro. E non lamentarmi mai. Lamentarsi è umano, ma inutile. E non lamentarsi è proprio di chi fa o ha fatto sport”.

 

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