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L'ORA DEL PASTO. LEMOND E GLI UNDERDOG
di Marco Pastonesi | 11/01/2024 | 08:41

Cinquanta secondi da recuperare nell’ultima tappa, una cronometro di ventiquattro chilometri e mezzo. Poco più di due secondi a chilometro. Se ce l’avesse fatta, se ci fosse riuscito, avrebbe conquistato il Tour de France. Ma era indispensabile un’impresa. Perché la maglia gialla, il primo nella classifica generale, era un corridore che aveva già vinto due volte il Tour, e che aveva da poco vinto anche il Giro d’Italia, e che andava forte anche a cronometro: Laurent Fignon. Ma Greg LeMond si superò, e lo superò. Volò la tappa da Versailles a Parigi in ventisei minuti e cinquantasette secondi, a una media di cinquantaquattro chilometri e mezzo, cinquantotto secondi meno di Fignon. Vinse la tappa e per l’inezia di otto secondi dopo quasi tremilatrecento chilometri combattuti, sofferti, sudati, vinse il Tour de France. Era il 23 luglio 1989.

Greg LeMond era lo sfidante, quello meno favorito se non sottovalutato, quello che sembrava destinato al ruolo di battuto e al podio da secondo, e non esiste nessuno più sconfitto, dunque più deluso e amareggiato del secondo. E LeMond è uno degli “Underdog” (Battaglia Edizioni, 252 pagine, 15 euro), storie di sfavoriti e altre favole meravigliose scritte da Luca Amorosi (è lui l’autore della storia di LeMond), Gabriele Anello, Marco Baldassarre, Armando Fico, Roberto Gennari, Gianmarco Lotti, Mattia Musio, Claudio Pellecchia, Davide Piasentini, Simone Vacatello e Gianluca Viscogliosi, in un testo curato da Matteo Maria Munno, Marco Munno e Luigi Di Maso. Oltre alla storia di ciclismo, c’è molto calcio (Brian Clough, Otto Rehhagel, Richard M. Nielsen, Claudio Ranieri), ma anche basket (Villanova Wildcats), pattinaggio su ghiaccio (Steven Bradbury), pugilato (Buster Douglas), rugby (il Giappone), tennis (Goran Ivanisevic) e wrestling (Daniel Bryan).

A raccontare la prodezza finale di LeMond è, con uno stratagemma letterario, lo stesso Fignon. Il duello era cominciato già alla quinta tappa: al termine di una cronometro eterna, settantatrè chilometri, LeMond aveva vinto la frazione e preso la maglia. Cinque giorni da leader e poi il sorpasso di Fignon, cinque giorni da leader e altro sorpasso, stavolta di LeMond. Decisiva, sembrava, l’Alpe d’Huez. “Fu un duello epico, irripetibile – ricorda Fignon nella versione di Amorosi -. Attaccai una volta e lui mi fu dietro, attaccai di nuovo e resistette ancora. Era davvero il più forte inseguitore al mondo. Provai con un terzo attacco, e lui tornò sotto e addirittura provò a superarmi. Pensai che era inutile, che tutto quell’attaccare avrebbe portato a un niente di fatto; eravamo entrambi allo stremo delle forze e rallentammo tanto da far rientrare gli altri scalatori. Ma a sei chilometri dal traguardo, fu Guimard (il direttore sportivo di Fignon, ndr) a vederci ancora una volta chiaro: ‘E’ cotto, attacca di nuovo!’. Mi sembrava impossibile soltanto pensarlo e ci misi ancora due chilometri per decidermi, ma quando partii lui non riuscì a seguirmi. Nei quattro chilometri finali guadagnai più di un minuto”.

Il giorno della crono finale lasciò rimpianti: LeMond aveva optato per un manubrio da triathlon (“Secondo dei test fatti nella galleria del vento qualche anno dopo, fu calcolato che gli fece guadagnare circa dieci secondi”) e un casco speciale (“Circa dodici secondi”, “Guimard lo conosceva bene. Quando me lo aveva proposto, la mia risposta era stata: ‘E’ luglio, ci sono trenta gradi: con quell’aggeggio addosso, non riesco a respirare’”). E non era tutto: vittima di un incidente di caccia, LeMond aveva “trentacinque pallini nel corpo, di cui tre nel rivestimento del cuore, e cinque nel fegato”.

 

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