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NIZZOLO. IL RIMPIANTO DI GIACOMO
di Giulia De Maio | 28/04/2020 | 08:10

Quando finalmente ha trovato la tanto invocata continuità, il rischio è che non ci siano più corse da vincere. Dopo tre anni tribolati a livello fisico, Giacomo Nizzolo aveva iniziato con il giusto colpo di pedale il 2020. Il brianzolo classe 1989 ha trionfato nella quinta tappa del Santos Tour Down Under, quella con arrivo a Victor Harbor, e nella seconda frazione della Parigi-Nizza, ultima corsa prima dello stop forzato imposto dal coronavirus. Il velocista del Team NTT è ritornato ad essere quello del 2016, anno in cui vestì la maglia tricolore di campione d’Italia e fu quinto al mondiale di Doha, anzi più forte. Il brillantissimo avvio di stagione faceva ben sperare il trentunenne, che vanta 23 successi in carriera, ma la pandemia globale che sta tenendo in scacco il mon­do intero gli ha messo i ba­stoni tra le ruote.

Per una volta non ti sei ammalato tu... ma tutto il mondo.
«Già (sorride amaro, ndr). Mai mi sarei aspettato di vivere una situazione del genere. Come tutte le cose che non conosciamo, crea ap­pren­sione, è innegabile, nessuno l’ha mai provata prima e ha idea di quando sarà superata. Io non mi sento in pericolo, ma sto attento, resto a casa e invito tutti a farlo. Passo le giornate attaccato alla tv per seguire gli aggiornamenti, capire la tendenza del virus, che spero di cuore sconfiggeremo presto».

Tu vivi in Svizzera, ma la tua famiglia si trova in Lombardia.
«I miei parenti e amici abitano nella regione più colpita dal Covid-19. La preoccupazione è molto grande, specie per mia madre che un paio di anni fa ha dovuto combattere con un tumore. Fortunatamente i miei cari stanno bene, ma vivono in una zona calda. Mio fratello abita a Milano, i miei ge­nitori in Brianza, si proteggono, escono solo quando indispensabile e re­stia­mo in contatto grazie alle videochiamate. L’unica nota positiva di questo incubo è che viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci aiuta a tenerci in contatto anche se siamo lontani, fosse accaduto solo trent’anni fa sarebbe stato molto diverso».

Come trascorri le giornate?
«Abito vicino a Mendrisio con la mia compagna Sofia. Usciamo di casa solo per fare la spesa. Alla mattina facciamo ginnastica, nel pomeriggio io mi alleno sui rulli, il resto del tempo lo passiamo guardando tanti film e, io, giocando. Ho comprato una nuova console per sfogarmi con i videogame».

La squadra che indicazioni ti ha dato? 
«Quando ancora correvamo, oltre alle misure note, era assolutamente da vietare lo scambio di borracce. Da quando è partito il lockdown ci hanno detto di recuperare nei primi giorni, non aveva senso accanirsi con l’allenamento visto che per mesi non si potrà tornare a correre. Il team ha organizzato dei training di gruppo su Zwift, così da farci ritrovare tutti contemporaneamente sui rulli e tenerci compagnia. Per mantenere vivo lo spirito di squadra c’è anche la chat di gruppo, con la quale cerchiamo di tenerci aggiornati e su di morale. Anche i miei compagni stranieri ormai sono tutti fermi, in ca­sa, sui rulli».

A posteriori, correre la Parigi-Nizza è stato un errore?
«Per quanto riguarda la sicurezza dei corridori, la nostra incolumità fisica, non mi sono sentito in pericolo di essere contagiato. L’organizzazione ha ga­rantito l’isolamento alle partenze e agli arrivi, tutte le squadre hanno seguito dei protocolli. Per dare un segnale più chiaro alla gente che doveva restare a casa magari sì, ma era una situazione talmente in divenire che immagino sia stata difficile da gestire. Ogni giorno cambiava, anzi ogni ora, e tutti probabilmente ci abbiamo messo troppo a capire quanto fosse grave. Ho ricevuto tantissimi messaggi dalla Lombardia dopo il successo a Chalette-sur-Loing, mi hanno scritto che ho regalato loro un sorriso in questo brutto momento. L’ho dedicato all’Italia perché dobbiamo essere forti».

Lo sport ha compreso tardi la gravità del­la situazione...
«Come detto, tutti abbiamo faticato a renderci conto della gravità della pandemia, inizialmente non sembrava così preoccupante e vasta. Per un amante dello sport come me, è strano non po­ter uscire in bici o fare un bel giro in mo­­to, ma anche non aver modo di se­guire le manifestazioni in diretta in tv. Per sopperire a questa mancanza mi sto sparando delle grandi repliche, sto guardando tutti i Gran Premi che mi sono perso correndo, gli speciali sui piloti, nei giorni scorsi ne ho visto uno molto bello sui vari campioni del mon­do. Mio papà Franco mi ha trasmesso la passione per la moto fin da quando ero un bambino. Non avessi fatto il ciclista, probabilmente avrei tentato la carriera da motociclista».

Professionista dal 2011, qual è il tuo ri­cordo più bello sin qui?
«Il Giro d’Italia 2012: per un italiano la corsa rosa è un’emozione particolare, ha sempre un sapore diverso rispetto al resto. Riuscire a finirlo poi, è stato in­credibile. Ricordo che quando ero piccolo guardavo la corsa rosa in televisione e mi sembrava quasi impossibile portarla a termine. Sono fiducioso che, in qualche modo, si potrà disputare anche in quest’anno tribolato».

Quello più brutto invece?
«La stagione 2017. Ho corso pochissimo e non sono riuscito ad ottenere grandi risultati. Ho avuto alcuni problemi fisici che hanno compromesso la mia stagione. Sono rimasto ottimista però, convinto che, dopo la tempesta, il sole torna sempre a splendere. Me lo ripeto anche in questi giorni difficili».

Il 2020 per te era iniziato bene.
«Al meglio. Ho avuto la riconferma che quando d’inverno riesco a lavorare senza problemi poi sono competitivo. Era dal 2016 che non mi sentivo così bene e quello finora è stato il mio mi­glior anno. La Parigi-Nizza non era nei miei programmi. Dovevo correre la Tirreno-Adriatico ma, a causa del­le cancellazioni delle corse italiane le­gate al coronavirus, c’è stato un cambio di programma. La tappa che ho vinto è stata tanto spettacolare quanto stressante a causa di pioggia e vento. Nei ventagli io e i miei compagni ci siamo comportati bene. Senza dubbio questo è stato l’inizio stagione più for­te della mia carriera (oltre alla vittoria al Tour Down Under e alla Parigi-Niz­za, è sta­to secondo alla Race Torquay, terzo nel­la prima tappa del Tour de la Pro­vence, secondo alla Kuurne-Bru­xel­les-Kuurne, ndr), i presupposti erano ottimi, quindi quando sono state cancellate le corse a cui tenevo di più, non ne­go di aver passato due giorni di delusione. La botta morale c’è stata, poi ho capito che la situazione era ben più complessa e che per questo non dovevo concentrarmi sulle gare, ma sulla salute mia e degli altri».

Come speri proseguirà?
«Il mio primo obiettivo era di ritrovare salute e continuità di risultato e l’ho centrato. Per questo devo ringraziare le persone che mi sono state vicine, e non era facile, nelle ultime tre stagioni piene di guai. Il ginocchio destro mi ha tirato matto, ma ora tutto è risolto. Ora la grande soddisfazione è vedere che se non ho problemi di salute sono davanti, con i migliori. Al momento è impossibile fare programmi, ma le classiche adatte alle ruote veloci erano e saranno i miei target, indipendentemente da quando verranno disputate».

Milano-Sanremo compresa...
«La Classicissima di Pri­ma­vera è la mia corsa preferita, il sogno nel cassetto. Speriamo in un ri­col­locamento quest’anno vista la difficile situazione che lo sport italiano - e non solo - è chiamato ad affrontare».

Quando sei sui rulli a cosa pensi?
«La bicicletta insegna che il lavoro pa­ga sempre, nessuno ti regala niente, se vuoi conquistare qualcosa devi lavorare duro. È l’unica strada percorribile per ottenere risultati. Le due ruote per me sono passione, adrenalina e fatica. Allenarsi in casa può essere davvero noioso, ma stringo i denti e continuo a spingere sui pedali perché è giusto che sia così. Quando soffro mi aiuta cercare di pensare che la stagione prima o poi si risolleverà, che torneremo a disputare le gare più importanti che erano in programma, che ci ritroveremo di nuovo in sella e in strada, sen­za più l’obbligo di stare di­stanti. Spero accada presto, per me e per tutti».

da tuttoBici di aprile

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