Renzo Baldan non si perde una tappa del Giro d’Italia: “Tutti i pomeriggi, a casa, in poltrona, davanti alla tv, con una copertina sulle gambe e le gambe in alto, nella stessa posizione che assumevo per far riposare le gambe, da corridore”. Anche 50 anni fa: “Correvo nella Pepsi Cola. Gregario per Dancelli, Panizza e Schiavon. E, quando era la sua giornata, anche per Polidori. Tiravo, inseguivo, spingevo, mi si aggrappavano ai pantaloncini, facevo quello che potevo e, a volte, anche quello che non potevo. L’unica cosa che mi rifiutavo di fare era fermarmi nei bar per prendere da bere. Lo avevo fatto solo una volta, e mi era bastata: scena da Far West, assalto al saloon, e il barista disperato”.
La vita, per Baldan, è cominciata in piano, ma è scattata in salita: “Nato a Dolo. Papà operaio a Mestre, mamma casalinga a Fiesso d’Artico. Un giorno una macchina falciò cinque persone a piedi in fila indiana, fra i cinque c’era anche mio padre. Io avevo 12 anni, mio fratello sei. Mia madre si mise a lavorare, io già lo facevo da quando avevo nove anni, mattina a scuola e pomeriggio da un calzolaio. Finite le elementari, mattina e pomeriggio dal calzolaio”. Ma c’era la bicicletta, e c’era il ciclismo: “La prima corsa a 15 anni, da allievo. Mica male: quarto. La prima vittoria a 16 anni, al secondo anno da allievo, a Granze di Camin. Volata a due: primo io, secondo Attilio Benfatto. Diventammo amici”. E il ciclismo divenne la sua vita: “Professionista a 22 anni, nella Ibac di Torino. Siccome non conoscevo il mestiere, potevo fare la mia corsa. Imparato il mestiere, diventai gregario”.
Che gregario. Otto anni da professionista dal 1964 al 1971, nessuna vittoria: “Però ci andai vicino. Anche al Giro d’Italia: due quarti, due quinti, due sesti posti. Quella fuga a quattro, con Bitossi, Mealli e un olandese. Con il gruppo che inseguiva a 100 metri. Forai, non so dove né quando, non me ne accorsi, la gomma si sgonfiava a poco a poco. L’ultima curva, a 7-800 metri dall’arrivo, toccai con il cerchio, e addio tappa. Adriano De Zan, in tv, non vide che cos’era successo e disse che avevo sbagliato la curva”. In compenso, una gran bella cotta: “Trofeo Cougnet, in classifica primo era De Pra, secondo io. La partenza a Teramo, pronti-via fuga di 5-6, comunque non più di 7-8, faceva un caldo terribile, prendemmo un quarto d’ora di vantaggio, le strade erano tutte su e giù, in gergo mangia-e-bevi, ma io mangiai poco, e a 30-40 chilometri dall’arrivo cominciai a vedere i brillantini, chiamai l’ammiraglia, mi dettero zucchero, ma era troppo tardi, non riuscivo neanche a mandarlo giù”. E una fatica indicibile: “Le Tre Cime di Lavaredo. Il gruppo si spezzò: davanti i migliori, dei nostri Polidori, Panizza e Schiavon, con la prima ammiraglia, dietro i più lenti, con la seconda ammiraglia, in mezzo rimasi io da solo, senza assistenza. Il filo del cambio si ruppe, il rapporto rimase sul 42x14, durissimo, impossibile, fu un calvario, non riuscivo ad andare su neanche a spinta, venni ripreso dagli ultimi all’ultimo chilometro, dall’ammiraglia mi dissero di cambiare la bici, ma ormai tanto valeva arrivare così”. Quanti incontri, quanti episodi, quanti racconti: “Vincenzo Torriani, ogni tanto si beccava dei vaff…, lui si voltava dall’altra parte e faceva finta di non averli sentiti. Gianni Mura, esordì quando esordii anch’io, nel 1964, veniva a chiedermi come stavo, com’era andata, come sarebbe andata. Sergio Zavoli, al ‘Processo alla tappa’ fui invitato una sola volta, a Mantova, primo Bitossi, maglia rosa Dancelli, io caduto nel finale dietro a Campagnari quando eravamo in testa alla corsa”.
Smesso di correre, Baldan lavorò prima in un maglificio industriale, poi in una stireria familiare: “Il bello del ciclismo? Non era tanto bello, ai miei tempi. Per i massaggi, certe volte dovevo aspettare fino alle 10 di sera. Per gli alberghi, certe volte dopo la tappa dovevo fare altri 30 chilometri in bici. Ma il ciclismo mi è rimasto dentro. La mattina vado a farmi il mio giretto, una settantina di chilometri. Il pomeriggio guardo il Giro alla tv. E quando rivedo un corridore di allora, sembriamo due alpini: ti ricordi quello?, ti ricordi quell’altro?, e ci scappa pure un bicchiere”.
Marco Pastonesi