La storia di Carlo Giraldo – Carlo il nome, Giraldo il soprannome -, che partecipò al Giro d’Italia per scommessa, da isolato, grazie alla colletta dei compaesani, e che si ritirò proprio all’ultima tappa perché, convinto di avercela ormai fatta, la penultima sera con i sudati risparmi si era concesso una cena luculliana, con 20 uova, peperoni sottaceto, due bottiglie di Lambrusco e vari grappini, e poi era stato male.
La storia di Susanna, bionda e sana, con sei fratelli, professione carrettiera, e come i sei fratelli, anche loro carrettieri, beveva, fumava e andava in bicicletta, ma se bere e fumare era se non permesso almeno tollerato, andare in bicicletta no, non tanto per quello che si poteva vedere, ma per quello che non si poteva vedere: il pensiero che certe parti femminili appoggiassero e sfregassero sulla sella – per esempio – a chi la guardava toglieva il sonno.
La storia di Varisti, che sotto le fascine nella legnaia aveva nascosto ai tedeschi in ritirata durante la Seconda guerra mondiale non solo quattro o cinque salami dei più grossi, ma anche le sue due preziose biciclette, per paura che gliele requisissero, e anche per la soddisfazione di vederli camminare dopo che lui, catturato a Caporetto, fu costretto a fare più di 200 chilometri a piedi per essere rinchiuso in un campo di prigionia.
“Tutte le bici che non ho più” (Scripta edizioni, 128 pagine, 10 euro) è l’affettuoso libriccino che Alfredo Nicoletti ha dedicato ad alcune delle storie narrate e tramandate nella sua bottega di ciclista aperta nel 1909 a Verona, nel rione popolare di Tomba, ribattezzato Borgo Roma, da tre generazioni: il nonno Ettore, il papà Silvano e poi lui, Alfredo. Perché ogni bici ha almeno una storia da raccontare: quella del loro proprietario, “centinaia di personaggi fuori dal comune, stravaganti, bizzarri, insoliti” e “le loro vicende sono state divertenti, commoventi, qualche volta tristi, ma valeva la pena di scriverle”, e adesso anche di leggerle.
Come il tandem di quei due gemelli, di cui uno non vedente. Come quella lucente di Amilcare, amico di Girardengo, che scommetteva e faceva scommettere sulle proprie sconfitte, finché, notato da due carabinieri in bici, per sfuggirgli si era tuffato nelle acque dell’Adige. Come quella fragilissima di Don Giacomo, vittima di un aiuto-meccanico comunista alla vecchia maniera, cioè ateo e anticlericale. Come quella mitica di Ercole Baldini, protagonista di un tema a metà fra un’agiografia e un articolo di Gianni Brera, che suscitò la curiosità della maestra che nulla sapeva di ciclismo e Giro d’Italia. Come quella di Amelio detto Cicio per via di una magrezza gandhiana, che conosceva a memoria tutti i nomi dei vincitori del Giro d’Italia, del Tour de France e del Campionato del mondo su strada, e che scoprì la sua salita sul Monte Grappa, la percorse una volta al giorno per quasi 20 anni e ogni volta, in cima, gli pareva di sentire la folla acclamarlo come se avesse staccato Ganna e Binda, Bartali e Coppi.
Fra una storia e l’altra, Nicoletti regala istruzioni per l’uso: come scegliere la bici ideale (“Cerchiamo di pensare alla bicicletta come a un oggetto che da quel momento in poi farà parte della nostra vita”), perché preferire l’acciaio al carbonio o all’alluminio (“Il più resistente, il più elastico, il più affidabile, il più bello”), quando pulire la bici (ma non con l’aceto). Sapete il metodo più sicuro per non farsi rubare la bici? “Tenerci il culo sopra”.
Marco Pastonesi