C’è un corridore che, ogni volta che sale in bici, trionfa. C’è un corridore che, ogni volta che pedala, conquista. C’è un corridore che, ogni volta che parte, vince. Oggi, Coppa Sabatini, dorsale 34: Adriano Malori.
E’ entrato nella morte a occhi aperti. La memoria ha cancellato il subito prima e il subito dopo. Forse per pudore, per dignità, per rispetto. La voglia gli ha restituito la strada e, con la strada, anche la vita. Centoventi chilometri e poi il ritiro nel Gran premio di Quebec, centoquaranta e poi il ritiro nel Gran premio di Montreal, centosettantacinque e il terzultimo posto nella prima tappa del Giro della Toscana, centotrentanove e poi il ritiro nella seconda tappa, ma dopo un centinaio corsi in testa a tirare. Oggi, a Peccioli, chissà.
La svolta: “Da vicecampione del mondo a cronometro a non potermi più neanche muovere. Non lo potevo accettare. La parte destra del corpo paralizzata. In quel momento mi è cambiata la vita, il modo di vederla, come il bianco e il nero, e mi sono reso conto che tutto il resto – soldi, macchine, orologi, abiti – non contava, non valeva, era una scemata”. La fede: “La religione non c’entra. La mia religione non è quella divina, ma quella umana: credo nell’uomo, nella sua possibilità di conversione, rinascita, resurrezione. Ciascuno di noi è padrone della propria esistenza. Voglia e volontà. Lavoro e allenamento. Obiettivi e orizzonti. Trovare una motivazione anche se non c’è, e se non c’è, inventarla”. La forza: “Donne e uomini, bambini e anziani, ricchi e poveri, tutte persone bloccate da un incidente in casa, al lavoro, nel gioco, nello sport, tutte accomunate dal sogno che poi è un bisogno, dalla passione che poi è una necessità, di ritrovare gesti e parole. Per condividere un bicchiere di vino, per regalare una carezza al nipote, per darsi la mano e camminare insieme”. Il mistero: “I miei ricordi si fermano la mattina della prima tappa del Tour di San Luis, in Argentina, e ricominciano sul letto di un ospedale, in Spagna. Dal 22 gennaio al 15 febbraio. Ma ricordo tutto della impossibilità di muovermi, e forse proprio per non dimenticare fin dove ero caduto, e dove sarei potuto rimanere. Si fa prima a chiedermi quante volte non ho pianto di quante volte lo abbia fatto. Dubbi, sofferenze, paure, incubi. Più faticoso che correre due Giri d’Italia, quattro Tour de France e una Vuelta – quelli finora disputati in carriera – ma nella stessa stagione”.
Malori che confessa: “La sera, prima di addormentarmi, mi dico ‘che bello essere qua’. E la mattina, appena sveglio, mi dico ‘che sonno, però che bello essere qua’”. Malori che ammette: “Che bello fare quello che amo”. Malori che confida: “Alla vita chiedo soltanto di essere felice”. Malori che spiega: “Se prendi una Ferrari Testarossa, una macchina degli anni Novanta, magari avrà il motore scarburato e le gomme lisce, ma rimane sempre una Ferrari Testarossa. E io mi auguro di essere così, con il motore scarburato e le gomme lisce, ma pronto per essere rimesso a nuovo. Ci credo, ci spero, lo voglio”. Malori che giura: “Quello che sono riuscito a fare io in sette mesi, dalla paralisi alle corse, dev’essere una speranza, un esempio, un progetto per tutti”. Malori che dice: “Faccio ancora fatica a muovere il braccio destro. E scrivo come un bambino, male e a stampatello”. Malori che garantisce: “Sono più bello in bici che a piedi”. Malori che s’illumina: “Ho ritrovato la fatica, tanta. E ho ritrovato il gruppo, affettuoso”. Malori che ha festeggiato il suo primo arrivo: “Staccato, con una ventina di ‘peones’, ma con le mie gambe”.
C’è un corridore che, ogni volta che scende dalla bici, è – parole sue – cotto come un pero. “Ma solo così mi sento vivo”.
Marco Pastonesi