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L'ORA DEL PASTO. ALESSANDRO RIMESSI, I RACCONTI DEL GREGARIO
di Marco Pastonesi | 25/01/2023 | 08:07

Giro dell’Appennino, anno 1964, Passo della Bocchetta, quota 772, quasi nove chilometri a quasi l’8 per cento con pugnalate a quasi il 19. Quasi un martirio. Lui, dorsale 65, s’impegna nell’ultima fatica della giornata: si arresta a una fontana, riempie la borraccia, ritorna in gruppo, raggiunge i corridori di testa, rifornisce il suo capitano, ormai siamo ai piedi della terribile salita, l’inizio è forse la parte più severa, e il capitano – a quel tempo si faceva così - gli si appoggia, gli si attacca, come se fosse una seggiovia. Ma lui è spremuto, è sfinito, e allora vacilla, rischia di finire a terra, zigzaga, alla prima fontana si ferma, ci si siede sopra, come se volesse riprendere coscienza ma non volesse riprendere la corsa. “Una donna, allarmata, mi si avvicina. ‘Sta male?’, mi chiede. ‘Sarei stato malissimo se fossi rimasto con gli altri’, le spiego”. Lui, il gregario, Alessandro Rimessi. E il capitano, Franco Cribiori. Più tardi Cribiori avrebbe vinto, in una volata a quattro, su Motta, Balmamion e De Rosso. Rimessi non risulta fra gli arrivati.

“Bici al chiodo”, a Campagnola Emilia, domenica scorsa. Tavolate chilometriche e musicali. Il ciclismo non a forcelle ma a forchette. Alla mia destra, Sonny Colbrelli. Alla mia sinistra, Alessandro Rimessi. A una sessantina di anni da quell’Appennino, la vita è ancora divisa – e sempre lo sarà – fra capitani e gregari, fra campioni e portaborracce, fra stelle e meteore. Rimessi, 85 anni, mangia, beve e racconta di gusto. E’ la sua giornata della memoria.

“Consandolo di Argenta, nel Ferrarese. Campagna. Agricoltura. Papà contadino. Un pezzo di terra in affitto. Grano, granoturco, bietole, un po’ di uva. Mamma morta quando io avevo otto anni e mezzo, mio fratello e mia sorella ancora più piccoli. Quinta elementare, poi a lavorare nei campi fino ai 17-18. La prima bicicletta in prestito, le due levette posteriori per cambiare il rapporto. La seconda bicicletta comprata da un falegname, abbandonata in un angolo della sua bottega, costava tremila lire, ed era esattamente la cifra che mi mancava, perché di lire ne avevo zero. Ma con una colletta del paese riuscii a comprarla. Non aveva marca, ma forse era stata una Dei, un telaio normale, ma con i tubolari e un manubrio quasi da corsa. Cominciai con quella bicicletta balorda e con qualche corsa paesana, alla partenza spettatori e concorrenti si dicevano ‘ma dove vuole andare con quella bicicletta lì?’, volevo andare al traguardo e il bello è che ci arrivavo prima degli altri. Era il 1954. La prima corsa del 1955 fu a San Martino di Ferrara, il 19 marzo: primo, da solo. La seconda corsa: primo, in una volata a sei. La terza corsa: primo, in un’altra volata. La quarta corsa a Bologna, in fuga, da solo, l’arrivo sotto le Due Torri, pedalavo tra il marciapiedi e i binari del tram su pietroni sconnessi, un uomo attraversò la strada, caddi a terra, quando mi rialzai mi avevano già rubato la pompa e il tubolare di scorta”.

“Dilettante all’Aurora di Chiavari. Certi allenamenti li facevamo lungo lo Scrivia e incontravamo Coppi e i suoi gregari: Milano, Carrea, Gaggero... Per rispetto, si stava in silenzio e a ruota. Un giorno, su una mezza salita, andai in testa e cominciai a tirare. Troppo forte, mi disse Ettore Milano, va’ indietro. Impaurito, obbedii. Il massaggiatore dell’Aurora era Battista Colombo, uomo di fiducia di Gino Bartali e della Gazzola. Nel 1959 vinsi quattro corse consecutive e, grazie a Colombo, nel 1961 passai alla Gazzola. Gregario. Bisognava portare borracce. I rifornimenti non esistevano, ma le fontane sì, ed erano molte più di quelle poche rimaste oggi. Fontane, fontanacce, fontanelle, vasche, vasoni di cemento, pompe, eventualmente bar. Dalle parti del Macerone Bariviera entrò in uno di quei vasoni di cemento, ma si erano formate delle alghe, e lui, con le scarpe dalle suole di cuoio, scivolava, non riusciva più a risalire, allora gli detti una gran manata e lo salvai. Quanto ai bar, avevo formato un’associazione con Falaschi e Mazzacurati, ci fermavamo tutti e tre, uno entrava, svaligiava e non pagava, gli altri due aspettavano fuori il loro turno. In Sicilia Mazzacurati entrò, svaligiò, non pagò, ma gli fu bloccata la bici, e salvarlo fu un mezzo miracolo. Di solito dicevamo ‘paga Torriani!’, ma più passava il tempo e meno i baristi ci credevano, finché Torriani impose alle squadre di pagare, non con i corridori, ma con un addetto”.

Oltre alle borracce, bisognava portare anche pazienza. I capitani, in salita, si attaccavano alle cosce, ai pantaloncini, a tutto. Nel 1961 e 1962 il capitano era Charly Gaul, ma anche Fantini, Padovan e i fratelli Sabbadin, poi vennero Bruni, Cribiori e Vigna, e nel 1965, alla Filotex, Bitossi, Carlesi e Nencini. Gaul era il più esigente. Non avevo giornate libere. Tirare e inseguire, proteggere e assistere, stargli accanto finché si poteva, fino ai piedi delle salite, poi lui decollava e lo si rivedeva al traguardo, altrimenti in albergo. Era fortissimo, attaccava e s’involava anche sui cavalcavia. Anche Bahamontes era fortissimo in salita, ma solo lì, in discesa era una frana. Invece Gaul andava forte anche in discesa e a cronometro. Mingherlino, leggero, agile, nella borraccia voleva il karkadè, in corsa andava su e giù dalla sella, instancabile”.

Gaul si fidava di me. Il Giro del Lussemburgo del 1961 fu un trionfo: primo Gaul, lussemburghese, secondo Ernzer, lussemburghese, terzo Bolzan, italo-lussemburghese, tutti e tre della Gazzola. Io ventunesimo della classifica finale. Proprio in Lussemburgo il mio migliore risultato: quarto, primo nella volata degli inseguitori. E quarto anche in una tappa del Giro di Sardegna, anche qui primo nella volata degli inseguitori. In tutto, tre Giri d’Italia e mezzo, perché poi mi ritirai, un Tour de France, due Vuelta, tre Giri di Svizzera e tre di Sardegna. Nessuna vittoria, anzi, una, in un circuito, a Molinella, nel 1963. Prima della partenza domandai come si fossero messi d’accordo i capitani. Nessun accordo, mi risposero. Se puoi vincere, aggiunse Baldini, vinci tu. E vinsi davanti a Taccone, Baldini e Sarti. Ma all’arrivo, musi lunghi e silenzi pesanti. Cosa mi hai combinato, sospirava Recalcati, l’organizzatore, scuotendo la testa. Poi fui io a scuoterla, perché ai circuiti non venni più chiamato. Una bella fregatura, perché era lì che si guadagnavano soldi, minimo – come per me – 15mila lire. E quei soldi facevano comodo, altroché, ma i circuiti bisognava farli, non guardarli. In cinque anni di professionismo guadagnai abbastanza, non per farmi una casa, ma almeno per ristrutturarla. Ci fu un Giro d’Italia in cui collezionammo molte più multe, per colpa delle bottiglie in vetro, vietate, che premi: un debito di 35 mila lire ciascuno. Ma Torriani ce lo condonò”.

Venturelli? Era una macchina da soldi, guadagnava quello che poteva, ma spendeva – gioco, auto, donne - più che poteva. Bruni? Al Tour de France mi diceva di tirare, andavo in testa al gruppo, ci rimanevo cento chilometri, poi mi spostavo e il gruppo andava in fuga. Bitossi? Si fermava sui paracarri, aveva crisi di cuore, ‘dai!’ gli urlavamo, si riprendeva e ci riprendeva, ci sorpassava come una moto e, come successe a San Pellegrino Terme al Giro d’Italia, vinceva. Falaschi? Gregario, lo chiamavamo ‘il Trattore’ perché andava sempre. Anquetil? In Costa Azzurra, ai circuiti di inizio stagione, alla partenza volle conoscermi, parlava in italiano, ‘sono Jacques Anquetil’, si presentò, ‘la conosco’, gli risposi, poi in corsa, sull’Estérel, una salita di una decina di chilometri, mi vide in difficoltà, mi spinse, mi allungò anche la borraccia, c’era del tè, ma imbevibile. Camion-scopa? Mai preso. I capitani? Quando perdevano, era colpa nostra, e quando vincevano, era merito loro”.

PS Controllando, i risultati di Rimessi non corrispondono precisamente ai suoi ricordi. Ma il ciclismo – si sa - è lo sport della memoria, poi degli archivi.

 

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