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PELLIZOTTI: «LA BICI, FILO CONDUTTORE DI UNA VITA»
di Antonio Simeoli | 18/10/2018 | 10:12

La piccola Mia, nata la mattina della tappa di Peschici al Giro d’Italia 2017, proprio dove il papà vinse per la prima volta nella corsa rosa 2006, dorme sul divano. Lui non vede l’ora che si svegli per portarla a spasso con la bici. La bimba è nata tra bici, ruote, caschi, borracce, adesso ha un “driver” che in bici pedalerebbe con lei per ore. Uno spasso.
Lui è Franco Pellizotti, da pochi giorni, sabato Giro di Lombardia per la precisione, ex pro. È magro da far paura. Per la verità in Giappone a inizio novembre correrà ancora un criterium, ma lunedì ha già completato il primo mini-raduno della Bahrain-Merida tra i direttori sportivi, la sua nuova professione

Franco, da dove iniziamo?
«Ho quarant’anni suonati, ma alla fine della carriera mi piace tornare indietro al 1987. Gara tra Giovanissimi in Friuli. La mia prima gara».

Come andò?
«Avevamo ancora i pedali con le gabbiette. Non inserisco bene la scarpa, cado e faccio cadere tutta la prima fila. Poi ripartiamo e arrivo quarto».

Ripensando a quella gara sei soddisfatto della tua carriera?
«Sì. Di una cosa innanzi tutto: ho corso in bicicletta perché era semplicemente la mia passione. Ho sempre amato andare in bici e continuerò ad andarci anche adesso che mi sono tolto il numero dalla schiena. Pedalerò non ogni giorno come adesso, ma ogni volta che potrò farlo».

Adesso corre Giorgia, l’altra tua figlia...
«Sì, ed è bellissimo andare alle corse dei ragazzi. Mi sembra di tornare indietro nel tempo. Li vedo e mi rivedo. Corrono, s’impegnano, s’arrabbiano, nascono amicizie».

Cos’è cambiato?
«Purtroppo, e la cosa mi preoccupa, i telefonini, i social e altro hanno un po’ rovinato il giocattolo. Adesso vai alle corse e ti capita di vedere i bambini che giocano con il telefonino prima della gara invece che scherzare tra di loro. E poi, mi rendo conto, non è facile per un genitore mandare i figli a correre in bici: le strade sono pericolose. Si potrebbe migliorare le cose puntando di più sul ciclocross e la mountain bike, per garantire una crescita in sicurezza e anche evitare che i ragazzi vengano “spremuti” troppo nelle categorie giovanili».

È per questo che mancano talenti nel nostro ciclismo?
«Sì, e poi, mi spiace dirlo, ai nostri giovani manca un po’ di “fame”, di sacrificarsi per un obiettivo».

Franco, nel 2010 eri uno dei corridori più forti al mondo, poi il mondo ti si è rivoltato all’improvviso...
«Sospeso per i valori del anomali nel passaporto biologico. I fatti poi hanno dimostrato che sono stato il capro espiatorio per qualcuno, altro che doping: l’Uci mi accusava e intanto prendeva i soldi da Lance Armstrong... Avevo in mano un contratto col Team Sky da un milione di euro, stavo per correre il Giro da favorito, potevo esaudire il mio sogno rosa, sarei stato protagonista nella tappa dello Zoncolan che Cainero aveva disegnato per me, che passava per Arta e Paularo la casa dei miei genitori»

Invece...
«Il mondo del ciclismo, la maggior parte degli amici, mi hanno voltato le spalle».

Come ne sei uscito?
«C’è sempre un lato positivo. La mia famiglia, mia moglie Claudia in primis, mi hanno aiutato. Il nostro legame si è rafforzato, sono rimasti gli amici veri».

La vittoria più bella della carriera?
«La prima dopo quel periodaccio: il Campionato italiano a Borgo Valsugana nel 2012. È stata la rivincita di una persona onesta a quello che mi era accaduto. Avevo un contratto da 30 mila euro, ma indossavo la maglia tricolore. Pearaltro a Gianni Savio, che mi prese all’Androni, devo solo dire grazie: senza di lui sarei restato a piedi»

C’è una cosa che ricordi di quei due anni di squalifica?
«Giugno, poco prima dell’Italiano. Ero da poco tornato alle corse, ero salito al San Pellegrino per prepararmi in altura. Incontro Peter (Sagan ndr), preparava il Tour: “Pelli cosa ci fai qui? L’Androni a luglio non fa corse importanti”, mi chiede. Io gli dico che stavo preparando il Campionato italiano. Lui mi guarda incredulo... Poi ha capito».

Tenacia, professionalità, tutti te le riconoscono: merito del Dna carnico?
«Sì, me lo dice sempre mia moglie. Anche se la Carnia mi ha dato la delusione più grande».

Giro 2014?
«Sì, quel secondo posto nella tappa dello Zoncolan mi brucia. Avrei voluto dedicare la vittoria alla mia gente. All’arrivo ho pianto. È stata l’unica volta in carriera. Credo, però, che sia stato impagabile poter crescere e allenarmi spesso in una terra meravigliosa come la Carnia».

Farai il ds: se trovassero un tuo corridore dopato...?
«Non voglio pensarci, per fortuna ora ci sono solo casi isolati di chi, a fine carriera o con l’acqua alla gola per un contratto che non arriva, ci prova. Ma le cose sono cambiate».

Il corridore più forte affrontato?
«Valverde per classe e longevità... Sagan è mostruoso, un atleta più che un corridore, ma Vincenzo è Vincenzo».

Dovrai guidarlo dall’ammiraglia...
«Nibali si sa guidare da solo, è un fuoriclasse, dovrò guidare la squadra. Ma sono un novellino, dovrò farmi le ossa. Entro in punta dei piedi per far bene».

Consigli a quattro amici friulani. De Marchi?
«È forte, ha trovato la sua dimensione».

Gasparotto...
«Farà bene con la Dimension Data, nelle sue corse in Belgio è un fenomeno»...

Cimolai...
«Sabato si goda il matrimonio, il giorno più bello della sua vita. Speriamo trovi anche una squadra per regalo».

Il baby pro Fabbro...
«Ha voglia di imparare, continui così».

Nibali...
«Correre in bici per lui è una passione, finché continuerà a correre vincerà».

Mia si è svegliata: «Papà, bici», ha le idee chiare lo splendore di bimba. Si parte.

da Il Messaggero Veneto

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