Stiamo tanto a discutere di percorsi, di tattiche, di strategie, di alimentazione, di postura, di materiali, poi basta metterci un po' di porfido bagnato e si sconvolge la storia del Giro, soprattutto di un Giro privo d'altri ostacoli. Sarà bene sottolinearla bene questa faccenda: finora la vera selezione l'hanno fatta le cadute, inaugurate con Landa, proseguite lungo le Strade Bianche, stavolta con l'ecatombe di Gorizia.
E allora? E allora sarebbe un motivo in più per non disegnare percorsi così mollaccioni, due settimane e mezza di pura attesa, attesa per tre tappe di montagna che poi magari vengono pure mutilate dal maltempo (esperienze neanche tanto lontane).
Le cadute sono parte corposa nella storia del Giro, da sempre, sono anch'esse ciclismo, ma in questo Giro diventano ancora più incisive e decisive proprio perchè in assenza di tappe-setaccio si corre costantemente sul filo dei secondi e dei centimetri. Come in un castello di carte che resta in piedi precariamente, basta un colpo di vento, basta smuovere un pezzo, e viene giù tutto. Purtroppo, qui a Gorizia viene giù l'Italia, la poca Italia che ci restava, Ciccone e Tiberi, Ciccone più di Tiberi. Sfortuna? Certo che sì. Molta sfortuna.
Però nel compiangere gli sfortunati non si può non rilevare che – casualmente? - una ragazzino di 21 anni, per inciso maglia rosa, esce indenne dal mattatoio e persino in questa occasione riesce a guadagnare terreno nella classifica. Lui, già molto più saggio della sua età bambina, è di una lealtà esemplare: “Io cerco sempre di stare attento, di stare dove bisogna stare, però può essere solo fortuna”. Fortuna, innegabilmente, certo. Ma intanto. Intanto lui era lì davanti, dove stanno gli scafati, dove sta chi sa che certi percorsi bagnati e certi porfidi bastardi possono castigare più tante pendenze. Con lui Yates e la Visma, dietro di lui il compagno e capitano (?) Ayuso, nonché la perennemente mimetizzata sfinge Roglic.
Può essere tutto casuale, Del Toro può avere semplicemente un sedere cosmico, ma gli indizi cominciano a sommarsi: indenne sulle Strade Bianche, indenne a Gorizia, indenne comunque tutti i giorni. A me sembra doveroso riconoscergli – almeno sin qui – anche qualche dote e qualche merito: per essere un bebè, corre già come un babbione. E' un po' puerile pensare che solo casualmente si trovi sempre al posto giusto, fuori dai sinistri, per combinazione persino là dove si sgraffignano abbuoni. Non può essere un caso che porti da giorni questa maglia rosa senza tremori e senza sviste, perennemente concentrato, costantemente padrone della situazione. Certo le grandi salite gli misureranno la febbre quanto a resistenza e recupero, ma già quello che ha espresso nelle prime due settimane basta e avanza per definirlo quanto meno ragazzo sveglio, molto sveglio. Io che invece sono spudorato e precipitoso, arrivo a dire questo: si intravvedono chiari sintomi di campionite, si intravvede un chiaro profilo di vero purosangue. E poi accetto tutta la tiritera a seguire: piano, non correre, quanti ne abbiamo visti fiorire e sparire, deve ancora dimostrare tutto, quanta fretta ma dove corri dove vai.
Resta il fatto: in questo Giro povero e disgraziato, più drammatico che divertente, sta giganteggiando il pupo messicano. Una volta questa era la corsa più dura nel Paese più bello del mondo. Non c'è più la corsa più dura e forse non c'è neppure più il Paese più bello, ma se un senso ancora può avere la nostra gloriosa corsa nazionale è proprio questo: diventare un talent-show, che alla fine rivela chi in futuro diventerà una vera star, altrove.