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SCINTO. «SE NON RIPARTE, SARA' UN'ECATOMBE»
di Stefano Fiori | 23/04/2020 | 08:15

Si sa che, in natura, i pitoni sono molto combattivi e anche Luca Scinto, al quale hanno affibbiato da anni il soprannome de «Il Pitone», non smentisce questa caratteristica. Il coronavirus lo ha relegato prigioniero nella bella casa di Santonuovo di Quarrata, insieme alla moglie Angela e alle figlie, dove sembra essersi dedicato al giardinaggio e ai lavoretti di manutenzione sempre rinviati, come lui stesso ci conferma: «In effetti io e Angela stiamo affrontando di buona lena quei lavori che se non vengono portati a termine stavolta probabilmente non lo saranno mai più. Intanto  le nostre figlie Diletta e Matilde sfruttano al meglio il web e altre tecnologie – strumenti per me quasi sconosciuti - per studiare, mentre gli animali domestici, la cagnetta Cloe, due gatti non meglio individuati e un criceto ci fanno compagnia».

E gli atleti del Team Zabù-KTM che guidi come diesse?
«Rulli e computer sono i fidi compagni di viaggio per tutti e fortunatamente mi trovo a guidare dei ragazzi forti atleticamente e altrettanto forti di testa. La tecnologia aiuta molto; ieri, ad esempio, Visconti si è confrontato con Sabatini utilizzando un programma che simula la scalata allo Stelvio. Tutti stanno mantenendo una buona condizione atletica e in tutti, me compreso, c'è la speranza di poter riprendere gli allenamenti su strada almeno a maggio. In definitiva chi ci comanda dovrebbe capire di avere a che fare con persone che il ciclismo lo fanno di mestiere; lo sport è un'industria, lo dicono tutti e i ciclisti rappresentano una categoria di lavoratori dipendenti che a causa del virus potrebbero perdere il loro lavoro. Non per nulla Roberto Reverberi, team manager di lungo corso, ha già chiesto la cassa integrazione per i suoi atleti».

Quindi anche il ciclismo è a rischio?
«Se non si ripartirà al più presto la vedo veramente brutta. Ne l nostro mondo ci sono tanti atleti precari che potrebbero essere spazzati via da questa terribile crisi generale  e mi risulta già che nel 2021 varie squadre cesseranno l'attività. Guardando all'estero vedo però che in alcune nazioni, Germania, Francia, Svizzera e Olanda si sta cercando di trovare delle soluzioni opportune per rimettersi in moto nei prossimi mesi. Speriamo che anche qui in Italia qualcuno dia la sveglia e che si riesca a garantire almeno quattro mesi di attività, altrimenti sarà un'ecatombe. Bisogna decidere se si preferisce morire di virus o di fame e questo vale sia per lo sport che per la nostra economia»

E Luca Scinto come vive l'assedio del covid-19?
«Comincio ad essere stanco, ad avere la testa pesante. Ho smesso di guardare la TV con tutti quegli esperti di angosce varie e anche la conferenza stampa della Protezione civile alle 18 ha degli aspetti funerei. Un periodo simile a questo, dominato dall'ansia e da un'incertezza che ti mangia dentro, lo posso paragonare soltanto al 1996, quando dovetti restare inattivo per sette mesi a causa di un grave problema al ginocchio. Vissi un periodo buio, molto difficile psicologicamente, ma per fortuna fu un luminare come il professor Castellacci ad operarmi, il problema venne risolto e così ricominciai a gareggiare. Questo insidioso virus invisibile mi preoccupa ma ritengo che dovremo abituarci a convivere con lui, in mancanza di un vaccino. Forse ad agosto tutti i settori economici potrebbero ripartire, ma seguendo delle stringenti norme di sicurezza, ad esempio facendo tornare al lavoro i più giovani e lasciando a casa al sicuro gli anziani».

Qual è stata la giornata più bella della tua carriera ciclistica?
«Sicuramente la vittoria di Cipollini al mondiale di Zolder. Un successo che sentii profondamente mio per il lavoro svolto a favore di Cipo e per gli attestati di stima che mi giunsero da ogni parte, nel dopo gara. Tuttavia dei cinque mondiali che ho corso in maglia azzurra fu quello di Plouay che vide la mia migliore performance, andai fortissimo e alla fine mi classificai 39°».

In azzurro hai avuto come CT l'indimenticabile Franco Ballerini.
«Un fratello, io gli devo molto in quanto a insegnamenti e a mentalità manageriale. Più di una volta mi ha ripetuto di contare fino a 100 prima di parlare, per frenare il mio carattere focoso. Ora siamo io e Angelo Citracca ad essere rimasti vicini a sua moglie Sabrina, mentre molti adulatori e falsi amici sono spariti nel nulla».

Le persone del mondo del ciclismo che non dimenticherai mai?
«Sono stato professionista dal 1994 al 2002 ed ho ottenuto 7 vittorie tra la quali il Giro di Toscana, il GP di Camaiore e il Tour de Langkawi in Malesia, vestendo la maglia di team di eccellenza come MG e Mapei. I tecnici a cui sarò eternamente riconoscente sono Giancarlo “Ferron” Ferretti, Alfredo Martini e Franco Ballerini. Tra i colleghi sono tuttora molto legato a Max Sciandri, Rolf Sorensen, Johan Museeuw e Davide Cassani, ma Michele Bartoli sarà per sempre il mio capitano poiché più di una volta pretese dai manager che fosse concordato prima il mio stipendio rispetto al suo. Un grande atleta e un grande uomo, per una bella amicizia che dura tuttora».

In questi giorni si è riparlato sul web del “fattaccio” al campionato toscano dilettanti di Livorno 1991, quando battesti allo sprint Massimo Donati, tuo compagno di fuga, dopo avergli garantito che non avresti disputato la volata. Ti ricordi le polemiche e la “quasi” scazzottata all'arrivo?
«Certo che ricordo tutto e mi fa piacere ridare la mia versione. Io correvo per il GS Bottegone ed avevo il dente avvelenato con il diesse Massini della Magniflex, che mi aveva “scaricato” l'anno prima. Per farla breve, restiamo al comando io e Donati, pupillo di Massini, quando mancano ancora due giri alla fine comprendenti la salita del Gabbro. Sono un po' stanco e vedo che Donati ha ancora una bella gamba, così mi avvicino e gli chiedo “Se non mi stacchi andremo insieme all'arrivo e non disputerò la volata”. Massimo ci pensa, chiede a Massini e accetta. Poi, sul Gabbro, ce la mette tutta per staccarmi ma non ci riesce. Così arriviamo a una quindicina di chilometri dal traguardo, in pianura e lo avverto che farò lo sprint. Immediatamente Massimo si mette alla mia ruota e non tira un metro negli ultimi 10 chilometri. Voi cosa avreste fatto? In volata non lo vedo nemmeno e gli do addirittura una ventina di metri di distacco così, subito dopo scoppia il putiferio ma io ribadisco di aver giocato pulito. Nel ciclismo di oggi, in presenza di un accordo simile, ci avrebbero squalificato entrambi. Sì, lo ammetto, sono stato più furbo, Donati è stato un ottimo corridore e un bravo ragazzo, ma alla fine ho vinto meritatamente con le mie gambe e sono stato contento così, a dispetto delle maldicenze. Però, se ci pensiamo bene, sono proprio storie con polemiche come questa a mettere il pepe nel ciclismo, a creare degli episodi che poi si ricorderanno per anni e anni».

Concludiamo con il tuo ruolo di tecnico alla Vini Zabù KTM.
«E' una bella squadra, forte e bene assortita; sognavo per Giovanni Visconti il quarto tricolore, ma ora chissà.. Sono ormai 12 anni che guido team professionistici e credo di avere imparato il mestiere. Non sono un diesse tecnologico, aborro le radioline, ma ho appreso tanto dal Ballero e da Martini. Loro dicevano che direttori sportivi si nasce, con questo ruolo si impara a gestire il materiale umano ma io dico che questo è il più bel mestiere del mondo, a dispetto anche del maledetto coronavirus che per ora ci ha messi al tappeto».

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