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URAN, LE NUOVE SFIDE DI GO RIGO GO
di Giulia De Maio | 20/01/2019 | 07:48

Non ha una laurea, ma il diploma sì. E il ciclismo è la sua vita. Rigoberto Uran l’aveva giurato a sua papà, il quale gli aveva detto: «Ti faccio correre solo se completerai gli studi».

Rigo di esami, non solo in sella, ne ha superati tanti. La sua prima bici era una carcassa pesantissima di color ros­so e divisa in tre parti. Suo padre la fe­ce saldare perché voleva portalo con sé nei fine settimana sulle strade di Urrau, la loro città natale. Famiglia umile, ma molto appassionata di ciclismo, sport che in Colombia ha una popolarità pari al calcio in Italia. Un giorno il papà lo sorprese mentre vendeva bottiglie vuo­te per racimolare qualche soldo da spendere al mercato e comprarsi una bicicletta nuova. Lo prese da parte e gli fece una proposta: «Ti insegno i segreti del mestiere, vendere biglietti della lotteria per la strada è un modo più sicuro e remunerativo per tirare su soldi, ma tu promettimi che in cambio completi gli studi». Affare fatto. Rigoberto ac­cet­ta e arriva al diploma.

Fin qui la storia di questo simpatico ragazzo colombiano, sempre sorridente e pronto allo scherzo che in Italia co­nosciamo bene, è solo a tinte rosa. Vita difficile, ma non impossibile. Vita dura, ma non agra. Fino all’anno 2001, che per il giovane Rigo è davvero “l’an­nus horribilis”. Era il 20 agosto quando papà Don Rigoberto de Jesus Uran uscì in bici con un amico, il figlio restò a casa perché doveva studiare. Pa­pà uscì presto e non tornò più. Ri­goberto cominciò a cercarlo disperatamente giorno e notte in tutta la zona. Quando scoprì la verità fu di un dolore indescrivibile: il padre era stato fermato ad un posto di blocco delle forze pa­ra­militari e costretto a seguirli in montagna per rubare bestiame, ma si rifiutò di farlo e per questo venne ucciso. È superfluo dire che questo tragico episodio segnò profondamente la vita di Rigoberto, che da quel giorno si è do­vuto anche occupare di mamma Ara­celly che cadde in una depressione sen­za fine.

«È in quel momento che decisi di ve­gliare su di lei e su mia sorella Martha: con la bicicletta avrei riscattato una vi­ta per noi troppo sfortunata».

Rigoberto scopre il ciclismo.
«La prima bici da corsa me la regalò uno zio. Nel mio paese c’è sempre stata grande passione per il ciclismo e una squadra importante di promozione della bicicletta per i bambini, a cui mi portò mio padre. Ho corso solo tre an­ni in Co­lombia. Ho avuto moltissimi momenti buoni grazie al ciclismo. A dire la ve­rità per me ogni giorno è buono se mi sveglio, sono in salute e so­no felice. Chiaramente quando arrivi davanti è meglio di quando finisci nel gruppetto, ma non c’è alcuna giornata che cancellerei dalla mia stagione. La mia filosofia è sfruttare ogni momento e godere di quello che ho» ci ha raccontato al termine della stagione scorsa.

La prima corsa in un parco di Urrao: si iscrive e vince. Lo nota Josè Laverde, un tecnico che lo porta in una delle mi­gliori squadre colombiane. Studio al mattino, vendita di biglietti della lotteria al pomeriggio e allenamento la sera. Risultati sempre più importanti, quelli di Rigoberto, al punto che a 19 anni sbarca in Europa, firmando il primo contratto da professionista per la Te­nax di Fabio Bordonali. Inizialmente decide di vivere a Pamplona, in Spa­gna, ma alla Tre Giorni di La Panne si rompe una clavicola e Bordonali pensa bene di tenerselo vicino, per curarlo ma anche per insegnargli il mestiere.

È così che Rigo approda a Brescia e in pratica viene adottato da una coppia senza figli, Beppe Chiodi e Melania Chia­rutti, che decide di aiutare questo ragazzo colombiano che sa scalare le montagne.
«Ho bellissimi ricordi legati all’Italia, è la mia seconda casa, ho grandi amici, Melania e Beppe, che vi­vono a Brescia e mi hanno aiutato tantissimo nel 2007, l’anno più difficile della mia carriera. Vado a trovarli una o due volte all’anno, a volte vengono a se­guir­mi alle corse, sono la mia famiglia in Europa. La cosa più bella che mi ha dato il ciclismo è proprio conoscere persone come loro. In Italia ho raccolto i migliori risultati della mia carriera, mi piacciono le vostre corse e il tifo della gente».

Il ragazzo cresce, ma anche in bicicletta raccoglie le sue belle delusioni e sofferenze. Nel 2009, al Giro di Germania, si frattura una spalla. La sua è una costante rincorsa verso qualcosa di oscuro. Lui ne parla poco, solo apparentemente sembra vinto, ma dentro di se cova la brace del riscatto.
«Ho sempre creduto nei miei mezzi e non mi sono mai tirato indietro di fronte a niente. Quello che ho passato mi ha insegnato a lottare. A guardare avanti, anche nei momenti più difficili. Quando tutto sembra perduto io mi ri­peto sempre una cosa: “Sei vivo? Bene, fatti valere”».
Lui si fa valere e vedere. Così, dopo aver militato in un paio di piccoli team passa prima a una grande squadra spagnola (la Caisse d’Epargne), poi ad uno dei colossi mondiali del ciclismo: il Team Sky di Wiggins e Froome. Per lui è la svolta. Qui fa un altro passo in avanti verso la maturazione: cresce sotto l’aspetto tecnico e impara ad alimentarsi. Fino a quel momento, infatti, Rigoberto era un tipo un po’ naif. Ar­gento alle Olimpia­di di Londra 2012 (anno in cui veste anche la maglia bianca di miglior giovane al Giro, ndr), se­condo dietro Nibali alla corsa rosa 2013, a fine stagione riceve l’offerta della Omega Pharma Quick Step e la Sky non fa nulla per trattenerlo, scegliendo di puntare sul connazionale Sergio Henao.

«Io non porto rancore a nessuno, perché sulla mia strada ho trovato tante persone che mi hanno voluto bene. La vita è davvero una gara a tappe: oggi vinci, domani perdi. L’importante è ri­manere sempre lì, nel vivo della competizione».

Questa è la sua filosofia. Con il team di Lefevere per la prima volta in carriera arriva ad un Grande Giro con una squadra totalmente a disposizione e una condizione al top. Deve accontentarsi ancora una volta del secondo gradino del podio ma, come sempre, lo fa con il sorriso sulle labbra, anche perché deve inchinarsi solo al suo connazionale Nairo Quintana. Per la Colom­bia è festa grande.

Nel 2016 passa alla Cannondale, che dall’anno scorso si chiama EF Drapac e come primo nome ha Education First, organizzazione leader da oltre 50 anni nel settore dell’educazione all’estero con i suoi programmi linguistici. L’anno successivo conquista il podio finale di Parigi: al Tour de France è secondo tra Chris Froome e Romain Bardet. Nella scorsa stagione ha vinto una tappa della Colombia Oro y Paz e una al Giro di Slovenia: «È stato un anno positivo ed è stato bello chiudere il 2018 in Cina, è importante esserci andati con la EF, così i cinesi imparano l’inglese (ride, ndr). Ho trascorso le vacanze in Colombia, con la mia famiglia, a casa. Mi sono riposato e dedicato alle mie attività extraciclistiche, co­me le conferenze e i meeting motivazionali che organizzo per alcune compagnie del mio paese. Il ciclismo è uno sport di squadra ed è una metafora perfetta per un team building aziendale. Il 4 novembre scorso si è tenuto il “Giro di Rigo”, una pedalata per gli amatori che ha avuto un grande successo, an­che grazie alla partecipazione di amici campioni come Chris Froome. Ho tan­te altre cose in mente con la mia so­cietà “Go Rigo go”. Il tutto è iniziato quattro anni fa con la linea di abbigliamento, a cui di recente abbiamo ag­giunto prodotti alimentari e di integrazione, oltre all’organizzazione di alcune manifestazioni. Ho un gruppo di persone fi­date che lavorano con me in Co­lom­bia, vado molto fiero di loro. Quando non sono in bici, non mi piace stare con le mani in mano, devo avere sempre qualcosa da fare».

Da dieci anni convive con la fidanzata Mi­­chelle, da parecchio tempo hanno scelto di vivere nel loro buen retiro di  Mo­ntecarlo.
«Mi ci trovo bene perché c’è sempre bel tempo. Torno in Colombia in inverno e alcuni periodi durante l’anno per allenarmi in altura e stare con mia mamma e mia sorella».

Il 26 gennaio compirà 32 anni. Alla sua quattordicesima stagione da professionista punta ancora su quel Tour de Fran­ce che finora solo nel 2017, quando è arrivato secondo alle spalle di Froo­me, gli ha aperto le braccia.

Non ha la laurea, ma ormai ha abbastanza esperienza per insegnare. Per i giovani ciclisti colombiani è un riferimento. Nel futuro si immagina procuratore?
«Un manager deve lavorare tanto e a me piace lavorare, ma non lo so. Ora è presto per pensarci, sono a disposizione dei giovani per dar loro dei consigli. Mi piace guidarli, suggerire quali team possono essere più adatti per la loro crescita, ma non lo faccio per guadagnarci. Mi sono trasferito in Europa e sono entrato a far parte del World Tour per primo rispetto a loro, quindi mi sembra giusto condividere con loro la mia esperienza. Apro loro le porte e li aiuto, offro una mano. Ci sono tanti ra­gazzi promettenti come Martinez, con me alla Ef Drapac, Bernal, Gaviria, So­sa e tanti altri arriveranno perché il mo­vimento tra i 18-21 anni è davvero florido in questo momento. C’è tanta qualità in Colombia».

Prima di pensare al domani, è giusto concentrarsi sul presente.
«Non mi piace troppo guardare al futuro, finché starò bene come ora alla Ef Drapac continuerò a gareggiare con pia­cere. In questa squadra ho le mie re­sponsabilità, ma allo stesso tempo vivo sereno. Mentalmente e fisicamente sto bene, penso di avere ancora un po’ di anni avanti a me. Io non sono uno “fissato” con i risultati, so che svol­go un lavoro per cui il rendimento è fondamentale ma le vittorie per me non sono questione di vita o di morte. In bici ci voglioni impegno e sacrificio, ma mi ritengo un privilegiato a svolgere questo mestiere e a divertirmi come quando ho iniziato».

da tuttoBICI di gennaio

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