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GATTI & MISFATTI. LA SPERANZA È L’ULTIMA A MORIRE, MA MUORE IN BICI
di Cristiano Gatti | 26/02/2025 | 08:00

Abbiamo speranze che la strage finisca, un giorno o l’altro? Che si possa andare in bicicletta, sulle strade, senza sentirsi zombie, senza lasciare due ri­ghe di testamento prima di uscire, senza aumentare la fre­quenza cardiaca ogni volta che alle spalle arriva una macchina, un furgone, un ca­mion?

Per quanto ce la raccontiamo, per quanto andiamo a spaccare il capello in quattro, la vera emergenza del ciclismo non è tanto la crisi di campioni, la mancanza di sponsor, la chiusura delle squadre e delle cor­se. Meglio: è tutto questo, ma tutto questo è la conseguenza della causa prima, cioè il ri­schio. Sì, pedalare per passione, per salute, per hobby, per svago, per agonismo, per competizione, pedalare in qualunque modo è diventato troppo rischioso. Da qui, a catena: le fa­miglie non avviano più i fi­gli al ciclismo, i comuni e le prefetture non si assumono più la responsabilità di autorizzare gare, gli sponsor non hanno più lo stimolo di investire soldi in una disciplina sempre più boccheggiante. La riforma del codice stradale vor­rebbe farci credere di ba­dare con grande attenzione a questo pericolo, ci sottolinea ogni volta che è passata la mi­sura del metro e mezzo tra mezzi e bici, come non sapessimo che ancora deve nascere il vigile o l’agente presente sul posto del sorpasso, come non sapessimo che comunque poi ti prendono dal davanti, frontalmente, come ultimamente è successo alla povera, cara, carissima Sara Piffer, nemmeno vent’anni falciati da un tizio in fase di sorpasso. Dolcissima, la mamma della ragazza ha detto: “Troppa fretta, la gente ha troppa fretta”. E questo è vero. Ma la gente, noi tutti, quando è alla guida aggiunge un sacco di altre armi letali, la distrazione, la mancanza di rispetto, la stessa incapacità di guida, magari usando patenti comprate sottobanco nelle scuole-guida compiacenti.

Tutto quanto fa strage. E poco importa che la legge della statistica sia a sua volta implacabile, spiegando che più aumenta la massa dei praticanti, più au­menta inevitabilmente quella dei morti e dei feriti. Non possiamo accettare rassegnati questa regola numerica. Così come non possiamo accettare la solita consolazione del ma­le comune, cioè l’innegabile casistica che coinvolge anche il resto del mondo. Co­mun­que qualcosa bisogna tentare. Quando si parla di sicurezza io mando un pensiero rancoroso a quelli che la risolvono obbligando le bici da corsa a montare due lucine e il campanello, perché altrimenti quando ti investono non puoi neanche vantare ragioni. Lo mando a quelli che parcheggiano sulle piste riservate. A quelli che parcheggiano a lato e aprono la portiere senza guardare dietro. Agli autisti dei furgoni dell’e-commerce, i nuovi killer spietati, attanagliati dalla frenesia della consegna, regolarmente col cellulare in mano per seguire Goo­gle Maps. A quelli che impongono ai ciclisti di pedalare sull'ultimo centimetro utile a destra, là dove però si susseguono temibilissimi tombini profondi fino alla caviglia, uno dopo l’altro. A quelli che nei comuni continuano im­perterriti a sciacquarsi la co­scienza con le famigerate piste “ciclo-pedonali”, dove certo nessuno può essere investito dal Tir, ma dove diventa una guerra continua con i pensionati e il loro cane al guinzaglio, le mammine col passeggino, i runner a testa bassa, tutti convinti che il ciclista dovrebbe andare a passo d’uomo, spostarsi, magari scendere. A quelli che cianciano in campagna elettorale della mo­bilità green, dell’incentivo all’uso della bicicletta, delle campagne nelle scuole, salvo poi passare ad altro, agli ap­palti per nuove strade e nuo­ve rotonde che tassativamente non prevedono la pista ci­clabile. E penso soprattutto a quelli che odiano i ciclisti, che (con qualche torto no­stro) li considerano bulli, prepotenti, ignoranti.

È questo il brodo in cui ci troviamo a sguazzare, volendo ostinatamente pedalare sulle strade. Un tessuto viabilistico, ma soprattutto culturale, che non ci vuole e ci respinge. Che a fatica ci sopporta. Che ap­plaude sottobanco ai Feltri quando scrivono e dicono di godere davanti al ciclista finito spiaccicato come un gatto, sapendo che i Feltri sono tan­ti, tantissimi, quasi tutti. E dunque? E dunque abbiamo davanti un futuro green a chiacchiere, ma nero nei fatti. Prima ce ne rendiamo conto, prima ce la sbrighiamo. Quan­to meno ci evitiamo un sacco di chiacchiere inutili e ipocrite. Il mondo va sempre più di corsa, sempre più a testa bassa, la lentezza e l’ingombro della bicicletta sono fastidiose. Il mondo sogna un domani radioso con meno macchine e più biciclette, ma senza il fastidio delle biciclette.

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