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OLIMPIADI TOKYO 2020. QUELLE FACCE TRICOLORI...
di Pier Augusto Stagi | 05/08/2021 | 13:42

Sono le nostre facce tricolori, il trenino azzurro, i quattro moschettieri che ci hanno condotto nell’olimpo dello sport con una prestazione “monstre”, sancita da tanto di record del mondo. Sono quattro amici al bar, che pedalano in sincronia, sfruttando ogni scia e evitando ogni turbolenza, chiaramente dell’aria, per non finire all’aria.

Il quartetto è l’esasperazione della scienza e della tecnica abbinata all’uomo, e qui non ci sono solo quattro uomini, ma quattro ragazzi spaziali, con uno che ci ha condotto diretto su Marte, Giove e forsanche Saturno. Sono quattro amici che ieri sera non sono andati al bar, ma hanno festeggiato, finalmente e deliberatamente con del vino rigorosamente italiano e anche in questa occasione non si sono sprecati neanche un po’.

Il primo, anche in questo caso è stato Francesco Lamon, l’unico vero pistard, il primo vagone del nostro trenino, al quale spetta il compito di aprire le danze. Di far carburare i motori. È lui l’apripista di questo fantastico quartetto azzurro: «La partenza è delicata perché non devo pensare solo a me stesso, ma devo anche pensare che non deve rimanere sulle gambe ai miei compagni – ha spiegato il veneziano, che è soprannominato l’uomo dei dieci giri -. Poi stare a ruota è una sofferenza e, di fatto, la mia prova dura un po' meno, ma credo di aver fatto bene il mio lavoro».

Poi c’è Simone Consonni, l’uomo che alla fine della prova non regge allo stress e alla fatica. «Sono quello che ha faticato di più! Dopo due giri ero già al gancio. Lamon non se ne è reso conto ma è partito ancora più forte del solito, posso garantirlo», dice il bergamasco che non dimentica la riserva e chi ha lavorato per anni per arrivare fin qui: Liam Bertazzo e Michele Scartezzini.

Quindi c’è lui, il bimbo di soli 20 anni, destinato a diventare qualcosa di molto grande e mi riferisco a Jonathan Milan. Il friulano è stato l'ultimo ad inserirsi nel magico quartetto allestito da Marco Villa, ma il talento smisurato di questo ragazzo è stato chiaro fin da subito.

Ma in questo perfetto e collaudato connubio tra velocità e aerodinamica, linee e traiettorie e automatismi mandati a memoria fino all’ossessione, l’uomo in più e simbolo dell’Italia che pedala è Filippo Ganna. Se il mondo ha imparato a conoscere Tadej Pogacar (capace di bissare il successo del Tour a soli 22 anni), Wout Van Aert e Mathieu Van der Poel, noi possiamo presentare il signore del tempo e dei tempi. Se Yuri Chechi era il Signore degli Anelli, lui è il Signore dell’Anello. Un mix di potenza e stile.

Quattro mondiali dell’inseguimento, un mondiale della crono su strada, due titoli europei su pista, adesso l’oro del quartetto, dopo aver sfiorato per soli 2” il bronzo nella crono individuale su strada. A soli 25 anni è tanta roba, soprattutto tenendo conto del fatto che questo ragazzo su strada e nelle grandi classiche come la Parigi-Roubaix è ancora un diamante grezzo.

Nato il 25 luglio del 1996 è di Vignone, vicino a Verbania, dove vivono papà Marco, che lavora per la Guardia di Finanza di mare, mamma Daniela che è casalinga e la sorella minore Carlotta. Pippo si è trasferito da un paio di anni ad Ascona, nel Canton Ticino, in Svizzera. È un cocco di mamma, ma anche di sua sorella e della sua fidanzata, anche lei di nome fa Carlotta. Per lavoro è costretto a fare il giramondo, per professione deve girare per ore sul tondino di una pista, ma quando può stare a casa, sta a casa. Ama la famiglia e la natura. Se c’è da tagliar legna non lo si dive convincere. L’importante è non mettergli fretta: giù dalla bicicletta va con il passo del montanaro.

Adora la playstation e giocare con i lego. È goloso di Nutella quanto di caramelle gommose, e poi la sua passione sono loro: Mia e Blu, i suoi amici “pelosi”. Tutto bello, tutto perfetto? Certo che no. Anche a lui girano i cosiddetti, soprattutto se lo metti alle strette. «E se perdo la pazienza – mi raccontò qualche tempo fa -, son dolori. Insomma, sono un tipo impulsivo e spesso reagisco senza pensarci troppo. In ogni caso tra i miei pregi ci metto anche il fatto che se mi accorgo di aver sbagliato, chiedo scusa e imparo dagli errori commessi».

Come molti atleti, anche lui ha i suoi riti scaramantici, a partire fin dal numero, che deve preparare lui. «E poi la bici deve essere pulita e linda come nuova. E prima di una gara voglio sempre controllare personalmente che tutto funzioni alla perfezione. Così se qualcosa si rompe non posso dare la colpa a nessuno».

Ha sempre praticato sport, soprattutto pallavolo e pallacanestro, ma non ha mai trovato un feeling con queste discipline. Poi un bel giorno papà decide di organizzare una corsa e Pippo ha iniziato a pedalare, con il Pedale Ossolano di Marco Della Vedova. «In casa mia il ciclismo era sport sconosciuto – ha più volte raccontato -. Papà si dilettava con la canoa (ha preso parte anche alle Olimpiadi di Los Angeles, dnr) e mamma con lo sci nautico. Ho iniziato effettivamente a gareggiare da esordiente, ma non so bene come e perché avevo disputato una corsa da G3, ad Alessandria. Finii terzo ma non ne volli più sapere della bici per un po’ di anni. “Si fa troppa fatica, chi me lo fa fare?” avevo detto ai miei genitori. Ricordo che indossavo un casco più grande della mia testa, un paio di scarpe con le tacchette, prestate da qualcuno e che non riuscivo ad agganciare e il percorso presentava un cavalcavia che a me sembrava duro come il Mortirolo. Partii staccato, per due giri inseguii a tutta e alla fine arrivai terzo. Stremato. Vedi, io sono nato per inseguire».

Il gigante d’oro di Vignone, un migliaio di abitanti non lontano da Verbania, vince anche a parole. «Vorrei essere io a scrivere la mia storia, non fermarmi a quello che pensano o dicono gli altri», mi disse non molto tempo fa, vantandosi di essere anche molto abile nel preparare le grigliate al barbecue, che piace anche tanto al “tedesco”, suo papà. «Perché il tedesco? È un soprannome che gli ha affibbiato Florido Barale, il presidente del Pedale Ossolano con cui io ho mosso le prime pedalate. Papà è tosto, leale, insegna il rispetto dell’avversario, anzitutto. L’importanza dell’allenamento. Insomma è un uomo di regole: quindi il tedesco».

Ha un gruppo di amici di riferimento, una seconda famiglia: il suo circo magico. Dario, compagno di banco delle superiori; Alessandro che fa lo chef; Thomas, un dj un po’ folle». Poi c’è Carlotta, classe 95, la fidanzata. È laureata in contabilità e assicura che «tranne stirare» si arrangia bene con ogni faccenda domestica.

«E’ una persona trasparente – dice l’anima gemella -. Il primo impatto è un problema: sembra un orso, ma è il suo modo di mascherare la timidezza. Dice che non gli piacciono le sorprese ma la verità è che lo imbarazzano, non sa cosa dire. Non gli piace essere al centro dell’attenzione. Io a volte glielo dico: impegnati, altrimenti passi per maleducato». E se le si chiede se è romantico, lei a domanda risponde: «Di base no, però ha i suoi exploit».

Qualche tempo fa gli chiesi a chi aveva fatto il primo autografo e lui, con uno spiccato senso dell’ironia, mi aveva risposto: «A mio padre per uscire di scuola prima del tempo». Non contento ho insistito: a chi il primo autografo fatto? E lui: «Sul mio diario, ma cercando di imitare la firma di mio padre». Visto che sono un rompino professionista, gli chiesi anche se conosceva Luigi Ganna. E lui prontissimo rispose: «Varesino di Solbiate Olona, vincitore del primo Giro d’Italia, nel 1909. Con me nessun grado di parentela». Sai cosa disse alla fine di quel Giro vinto? «No». «Me brusa el cu». E Pippo: «A chi non brucia». Da ieri brucia molto di più al quartetto danese.

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