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FIANDRE, 25 ANNI FA L'IMPRESA DI GIANNI BUGNO
di Pier Augusto Stagi | 06/04/2019 | 07:54

C’è chi si ricorda tutto e chi fatica a ricordare. Chi conserva cimeli e simboli e chi, invece, nemmeno ha più il trofeo di quella vittoria. «Come posso non ricordarmi di quella vittoria datata 1994: sono passati 25 anni, ma è come se fosse ieri – ricorda Gianluigi Stanga, team manager della Polti, che quel 3 aprile di venticinque anni fa era in ammiraglia con Claudio Corti -. Si partiva da Saint Nicolas: quel giorno nevischiava. Mi sono detto: oggi Gianni non arriva nemmeno al chilometro 100. Mi sono sbagliato: fece una corsa perfetta. Restò sempre nel vivo della corsa, affrontando muro su muro sempre nelle prime posizioni. Non commise un errore che uno, se non quella volata pazzesca che per poco finiva per perdere per la smania di voler alzar le mani».

Gianluigi parla di Gianni con affetto e ammirazione. «Gianni è stato un corridore pazzesco, solo lui non sapeva bene del talento che disponeva. Appena arrivato nella mia squadra (Gianni aveva esordito tra i professionisti con la Atala di Cribiori, ndr) lo portai immediatamente al Nord, e alla Gand-Wevelgem, quell’anno, fece secondo alle spalle di un certo Sean Kelly. Insomma, Gianni poteva vincere quello che voleva. Era davvero un talento assoluto, un fuoriclasse in tutto e per tutto e certe corse non si vincono per caso, men che meno il Fiandre».

Gianni Bugno, da parte sua, ricorda poco: come al suo solito. «Se fosse stato per me non l’avrei nemmeno corsa – ci racconta quel fantastico interprete degli anni Novanta, che nel di’ di Pasqua di venticinque anni fa, regalò all’Italia del pedale una delle vittorie più prestigiose del mondo -. Non era la mia corsa. Non ce l’avevo nelle corde. Troppo pericolosa e folle per uno come me che non era certo un drago a governare la bicicletta. Non vi dico che avevo paura, ma quasi. Non ero a mio agio su quelle strade, ma quel giorno mi andò tutto bene. Man mano che passavano i chilometri, il gruppo si assottigliava. Nel finale siamo rimasti una ventina, poi sul muro di Grammont siamo restati in quattro: Andrei Tchmil, Johan Museeuw, Franco Ballerini e il sottoscritto. Siamo arrivati allo sprint e ho vinto al fotofinish su Museeuw. Ho temuto di aver perso perché ero convinto di aver vinto. Cosa mi è rimasto? Niente. La coppa non so nemmeno dove sia finita. C’è però il mio nome nell’albo d’oro: non è sufficiente?».

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