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ALAN MARANGONI: «IL CICLISMO ERA IL MIO DESTINO». AUDIO
di Diego Barbera | 31/10/2018 | 04:00

Affermare che il ciclismo era scritto a caratteri piuttosto evidenti nel destino di Alan Marangoni non è troppo ardito: il corridore 34enne della Nippo Vini Fantini, oggi all'ultima frazione di una corsa a tappe in carriera, ha letteralmente potuto venire al mondo grazie alle bici e pedalando ha trovato la propria dimensione. Una dimensione che proseguirà anche dopo la sua ultimissima fatica a Okinawa (Giappone) fra pochi giorni.

Lo abbiamo intervistato alla partenza della nona e ultima tappa del Tour of Hainan 2018, qui sotto le sue risposte, a fondo pagina il file audio per ascoltare le sue parole (ne vale la pena).

Sei alla partenza dell'ultima tappa di una corsa a tappe della carriera
«La considero anche l’ultima corsa vera visto il livello e il parterre, seppur a Okinawa sarà comunque una 2.1 è una gara un po’ più particolare. Le emozioni sono tante in questo momento, corro contro avversari che sono amici e ex compagni di squadra. Sento il battito accelerato perché dopo essere stato così tanto dentro questo mondo pensare che tra pochissimo tutto cambierà fa un effetto strano che ho difficoltà a spiegare».

Come ti sei svegliato stamattina?
«Con l’elettricità in corpo, come se non avessi più mal di gambe o stanchezza, sarà l’adrenalina ma oggi mi sento come se potessi quasi iniziare un nuovo giro a tappe. Forse, sapendo che è l’ultima tappa vorresti dare il massimo perché sembra che potresti andare oltre. Dispiace quasi che finisca tutto perché poi ripensi alla carriera, ai vari “Se ci avessi creduto un po’ di più”, ne metti tantissimi di se e di ma. Credo che accada a tutti di avere rimpianti, anche ai grandi campioni, che magari ripensano a quando avrebbero potuto vincere una Milano Sanremo. I miei rimpianti riguardano qualche soddisfazione personale in più».

Ad esempio?
«Di sicuro la famosa tappa di Forlì del Giro d’Italia 2015 (la Civitanova Marche - Forlì del 19 maggio, ndr) quando ero in una fuga di 200 km in cinque. Va detta come va detta: ai -1800 metri dall’arrivo ho attaccato, Alessandro Malaguti che è mio amico e compagno di allenamenti ha fatto il buco e speravo in una collaborazione, ma nei restanti 1000 metri, ha per tre volte tentato di venirmi a prendere finché ha riportato sotto Boem che ha vinto. Io ho smesso di pedalare terminando poi quarto. È stata una beffa mortale, lo stesso Boem ha ammesso che senza Malaguti non avrebbe mai vinto, così ho avuto la certezza di essere stato tradito da un amico e compagno di allenamento. Poi dopo ci abbiamo romanzato su per tanto ed è acqua passata, lui mi ha detto di aver perso un po’ la testa dato che arrivava sotto casa e non ci ha capito più niente. Rimarrà comunque una grande emozione, perché non capita a tutti quelli che hanno corso di giocarsi una tappa al Giro e fare vivere emozioni ai propri tifosi. Nel mio piccolo qualcuna, non tante, le ho fatte vivere».

Ma grazie al tuo lavoro molti campioni hanno vinto
«Le emozioni più grandi me le sono tolte da gregario. Ad esempio lavorando per Sagan come al Tour de France del 2013: ci siamo messi tutti in testa al gruppo a tirare facendo uno "sbrindello" per dirlo alla Magrini e si staccarono Cavendish, Kittel e Greipel con le loro squadre complete, avevamo mezzo gruppo contro, ma non ci hanno ripreso. E sull’arrivo Peter ha vinto, un ricordo indimenticabile. Qualcosa che vale di più che magari una vittoria al Tour of China a livello professionale».

Altri ricordi che sono affiorati in questi giorni?
«Con Nibali ho corso un Giro e una Vuelta, c’era tantissimo stress perché si doveva sempre correre nelle prime posizioni, si dovevano chiudere attacchi a sorpresa e tenerlo al coperto. Con Ivan Basso non sono riuscito a correrci al top, ma è stato molto bello. E anche con Elia Viviani. Penso di non dovermi rimproverare niente, ma credo che ognuno abbia il proprio destino: se in quel momento è successo quello è perché doveva andare così. Noi esistiamo ed esiste la situazione in quel momento. Pensando a questo ci si mette il cuore in pace e ci si sente bene. Pensando ai giovani d’oggi, loro ci metterebbero la firma ad avere la possibilità di correre 10 anni tra i professionisti».

Come è cambiato il ciclismo in questi anni?
«In questo ciclismo o sei un campione e hai tante possibilità o se sei un medio o medio forte e se hai un anno sbagliato non riesci più a recuperare. Mi viene in mente un corridore fortissimo come Cimolai, che ci ha fatto vincere l’Europeo e ora tribola per trovare anche una Professional. Nel ciclismo che ho vissuto valeva ancora tanto l’amicizia, essere un lavoratore, un uomo squadra, che fa gruppo. Adesso a tutto ciò viene data meno importanza e vedo tanti buoni corridori costretti a smettere, mi dispiace molto. A me è andata bene».

C'è troppa anarchia in gruppo ora? I corridori più anziani si lamentano dei più giovani
«C’è sicuramente più anarchia, un’anarchia totale: il giovane che passa se ne sbatte del rispetto o delle regole interne. Per lo spettacolo è buono perché c’è un agonismo sfrenato, ad esempio all’ultimo Giro, dalla prima all’ultima tappa. Per chi ci lavora, invece, questo accorcia le carriere perché tutti devono andare a tutta da Gennaio a Ottobre e il fisico non può reggere a lunga. Guercilena mi diceva che un recente calcolo dà massimo 5-6 anni a un certo rendimento con questo calendario e a questo ritmo».

Ritornando al destino, quando ti ha messo in sella a una bici?
«Posso dire di essere venuto al mondo grazie al ciclismo, perché mio nonno materno era direttore sportivo di una squadra di cicloamatori, mio babbo era uno dei suoi corridori ed era diventato il suo campioncino, il suo cocco e lo portava a casa a mangiare e a cena. Li ha conosciuto mia mamma e piano piano è nato un rapporto. Lì capisci che è stato proprio il ciclismo il mio destino».

Quando hai iniziato a correre?
«Avevo nove anni, nel 1993, perché mio babbo Giandomenico seguiva tutti i corridori giovanissimi, esordienti, fino ai dilettanti, gli sono mancati solo i professionisti. Casa mia era sempre piena di corridori, perché oltre a fare il ds era anche manager, massaggiatore, allenatore dietro moto. Quindi forse a forza di essere dentro questo mondo con mio nonno malato anche lui di ciclismo ho deciso di provare perché ero curioso. Dal ’93 non sono sceso più dalla bici».

La tua prima corsa?
«Un piccolo circuito della bassa romagnola, nella provincia di Ravenna. Mi è rimasto impresso perché ero partito un po’ indietro, ma dopo poche curve in quattro o cinque fecero un dritto in curva e io guadagnai quelle quattro posizioni che mi permisero di ottenere il piazzamento nei cinque. E arrivare tra i cinque era come vincere il Mondiale, era una ragione di vita, perché si riceveva la coppa. Arrivare sesto era un fallimento».

E la tua prima vittoria?
«Un altro circuito in provincia di Ravenna nel ’93, un’emozione forte. Devo dire che va bene il discorso del gregario e il costruirsi una carriera aiutando gli altri, ma il bambino inizia a correre perché ambisce alla vittoria».

Chi era il tuo idolo?
«Il Panta era il personaggio di riferimento per tutti quelli della mia generazione. Era dieci scalini sopra tutti».

L'hai mai incontrato?
«Un mio grande rimpianto è di non avergli mai nemmeno potuto stringere la mano o scattarci una foto insieme, l’ho solo visto passare col gruppo al Giro».

Ora che smetti che cosa farai?
«Aspettiamo a farlo venire fuori, ma rimarrò nell’ambiente del ciclismo. Non posso lasciare le bici perché sono la mia vita, il mio destino è non essere un campione ma di avere questo sport nel sangue».

Visto che ti sei svegliato con l'elettricità un pensiero a una fuga oggi?
«Oggi sparerò tutte le mie ultime cartucce per andare almeno in fuga. Ho parlato con gli altri ragazzi, alla Androni che ha la maglia ho detto: “Ho 20 minuti in classifica e non faccio paura, voi avete vinto tre tappe e la generale, mettetevi una mano sul cuore”. Non so se entrerò nella fuga giusta, ma tutti gli scatti che potrò fare le tenterò. Anche essere ripreso all’ultimo km va benissimo, passo sotto le telecamere e ringrazio. Sarebbe già solo un sogno esserci in fuga, andasse in porto sarebbe come un film. Ma so che la realtà è diversa, perché se la vita fosse un film avrei vinto quella tappa di Forlì».

 

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