Sono chicche, pallini, citazioni, aforismi, perle di saggezza, battute di spirito, filosofia di vita, confidenze, miniracconti. Li ho ritrovati, in fogli e foglietti, in questi giorni domestici, dimenticati e inediti (ottava puntata)
“Ero alto. Ma negli anni Cinquanta, a Nerviano, venti chilometri da Milano, il basket era un gioco da donne e il ciclismo uno sport da uomini. La mia prima bici fu un compromesso: telaio da donna e manubrio da corsa” (Ottavio Cogliati).
“Poi le corse. E pensare che persi una Coppa Italia, cronometro a squadre per società, perché davanti ci trovammo un pullman di linea a bloccarci la strada” (Ottavio Cogliati).
“Infine il turismo. Vacanze in bici e tenda. Ad affascinarmi non è mai stata la corsa, ma l’avventura” (Ottavio Cogliati).
“Non ho mai corso per i soldi. E in questo credo di essere un’eccezione” (Gigi Sgarbozza).
“Non avevo la mentalità per fare il gregario. Cercavo sempre di fare la mia corsa” (Gigi Sgarbozza).
“Quando fui ingaggiato dalla Dreher, mi dissero che avevo libertà. Poi all’ultimo presero Patrick Sercu, e le cose ovviamente cambiarono. Franco Cribiori, il direttore sportivo, mi promise: ‘Fino al Giro d’Italia aiuti Sercu, perché Sercu è il capitano. Dopo il Giro d’Italia gli altri aiuteranno te, perché tu sarai il capitano’. Figurarsi” (Gigi Sgarbozza).
“La mia prima bicicletta? Un’Aquila, telaio 22, azzurra, ereditata da mio fratello” (Franco Ballerini).
“La mia prima volta? Alle Cascine di Firenze, con una maglia rossa, i pantaloncini neri del Coni, una biciclettina in prova con i parafanghi” (Franco Ballerini).
“La mia prima corsa? Un circuito a Scandicci, categoria giovanissimi B1. Quando cercai di mettere i piedi nei puntapiedi persi una ventina di metri, mi ci vollero tre giri per recuperare il gruppo, poi arrivai terzo o quarto. Era stato bello. C’era già chi sapeva come stare in gruppo. Mi rifeci alla seconda corsa: vinta” (Franco Ballerini).
“Molte più le volte in cui mi sono detto: ma chi me l’ha fatta fare. Poi però una vittoria compensava tutto. Da bambino non me lo sono mai detto perché era un gioco, da professionista sì perché era diventato un lavoro. Giro d’Italia 1991, diciassettesima tappa, la Selva di Val Gardena-Passo Pordoi, cinque salitone dolomitiche, Pinei, Nigra, Pordoi, Fedaia e ancora Pordoi, noi della Tel Tongo-Colnago avevamo Franco Chioccioli in rosa e Mario Cipollini in ciclamino. Sulla prima salita si staccò Cipollini, poi tra fame, sete e Marmolada andai in crisi anch’io, in cima ero vestito leggero, troppo leggero, in discesa verso Canazei battevo i denti dal freddo, non riuscivo a stare a ruota, guardavo solo la riga din mezzo alla strada per non uscirne. Cipollini: ‘Come stai?’. Io: ‘Malissimo’. Lui: ‘Ci si vede all’arrivo’. Lottai disperatamente contro il tempo massimo. ‘Mica ho ammazzato qualcuno’, cercai di giustificarmi” (Franco Ballerini).
“Ci vogliono più velodromi. La pista, come dice Alfredo Martini, è l’università del ciclismo” (Franco Ballerini).
“Le piste ciclabili sono un valore aggiunto per i cittadini nelle città. Per i bambini ci vogliono i circuiti protetti: un genitore lascia i figli e li ritrova sani e salvi” (Franco Ballerini).
8 - continua
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