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MARINO ROSTI: «IL MENTAL COACH? ECCO COSA FA»
di Pietro Illarietti | 28/02/2019 | 07:17

«Le persone sono la ri­sultante di un percorso, delle loro esperienze passate. È importante che la testa abbia assimilato al meglio tutti i passaggi della vita per poter dare il meglio di noi stessi». È così che Marino Rosti, mental coach del Team Bahrain Merida introduce alcuni concetti relativi al proprio lavoro al fianco degli atleti di alto livello.

Storicamente nel ciclismo si è sempre privilegiata la preparazione del fisico, a scapito dell’aspetto mentale della performance. Negli ultimi anni invece vi è una tendenza a non trascurare più niente e per questa ragione le figure come quella di Rosti, ricoprono maggiore importanza in seno alle squadre e nella carriera degli sportivi. 

«Mente e fisico vanno di pari passo, lo sanno bene anche i coach - aggiunge il sanmarinese -. Ci sono giornate in cui si è più tranquilli perché le cose sono andate bene e quindi si è disposti a lavorare di più. Se invece qualcosa mina la tranquillità allora non riusciremo ad avere la concentrazione adeguata. Può succedere per tanti motivi di­versi, magari per via di problemi famigliari. Quando si presenta una determinata situazione, devo capire come af­frontarla e gestirla».

Entrando nel dettaglio, quali sono le paure tipiche del ciclista?

«Direi soprattutto quella di non essere all’altezza delle situazione. Di aver lavorato tanto e non vedere i risultati. Vi è inoltre la paura di non essere in grado di mantenere le aspettative. L’atleta si sente in dovere, nei confronti delle persone che gli stanno attorno, di rispettare le attese. Spetta quindi anche a questi soggetti saper trasmettere ap­procci, atteggiamenti e rapporti positivi. Ci avete mai pensato? Noi trasmettiamo con il corpo quello che siamo dentro. Per questo è bene lavorare sull’emozione e favorire la serenità».

Per meritare la dovuta attenzione, anche l’approccio di chi dialoga con il corridore è fondamentale.

«Proviamo a pensare ad un corridore a cui diciamo “Non ti staccare”. Diverso è invece se ci rivolgiamo a lui dicendo “prova a rimanere attaccato al gruppo”, “Cerca di rimanere lì il più possibile”. Il NON, viene associato a qualcosa di negativo e chi lo ascolta si met­te in una posizione di difesa. Co­mun­que l’approccio e il percorso cambiano nel tempo. Esiste un percorso teorico strutturato, ma che va adeguato a ogni singola situazione». 

Esistono esempi particolari?

«Cerchiamo di capire lo stato d’animo sfruttando semplici do­man­de. Mai una cosa diretta: si parte da un generale, cosa ne pensi? come ti sei sentito, cosa hai provato? come ti sei rapportato? Quale difficoltà hai avuto? Cosa pensi di fare? Ogni atleta è differente e arriviamo agli obiettivi per gradi. L’im­portante è innescare un percorso. L’al­tra cosa importante è ascoltare, mai dare la risposta». 

La gestione del campione è diversa?

«Per alcuni punti di vista è più semplice. Hanno quella conoscenza del sé interiore molto forte. Grazie ai campioni scopri quello che studi sui libri corrisponde alla realtà. Penso a gente come Vincenzo Nibali o Valentino Rossi. Loro sanno già darti la risposta. Cer­ta­mente pure loro hanno bisogno di sfogarsi ed esternare. Tu devi solo saper stimolare la valvola di sfogo. Tenersi le cose dentro non serve. Quando riesci trovare la chiave giusta allora si aprono certe saracinesche che non si sa dove possano portare, magari anche solo a un benefico pianto liberatorio». 

Percepisce da subito il miglioramento in un atleta?

«Sì perché il corridore diventa più interattivo. Un altro concetto che spiego loro è di imparare ad accettare l’altro, ognuno è diverso. Si tratta di un percorso che non ha un termine. A volte serve il confronto diretto e poi con il tempo basta anche solo sentirsi. Anche perché alla base di tutto c’è la fiducia».

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