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LA PROMESSA DI YATES: TORNERÒ AL GIRO PER VINCERE
di Pier Augusto Stagi | 30/06/2018 | 07:34

Erano venuti tutti per Chris Froome, sono rimasti per Si­mon Yates e alla fine hanno scoperto anche loro il valore di un atleta che, seppure vittima di una clamorosa crisi sul Colle delle Finestre, ha indossato la maglia rosa per tredici giorni e fatto capire a tutti che avrà un ruolo importante nel futuro delle grandi corse a tappe. Il Giro d’Italia ha fatto il pieno di giornalisti anglofoni, venuti nel Belpaese per seguire da vicino l’uomo dei quattro Tour, della Vuelta, ma an­che del Ventolin e del salbutamolo; dei mille misteri e di tante altre cose ancora. Sono restati fino alla fine, per Si­mon Yates, 25 anni, inglese di Bury, paesino nei pressi di Man­che­ster, ma­glia rosa dalla tappa dell’Etna, autentica rivelazione di questo Giro con tre vittorie di tappa al proprio attivo, an­che se una sorpresa non è, tuttalpiù va considerato un predestinato.

PREDESTINATO. Simon è considerato da sempre un ta­lento, al pari del suo gemello Adam. Non si arriva settimo ad un Tour (2017, ndr) con tanto di maglia bianca di mi­glior giovane per grazia ricevuta. Non si arriva sesto ad una Vuelta (2016, ndr) se non si hanno talento e do­ti non co­mu­ni. Lo stesso vale per il fratellino, che al Tour in verità ha fatto anche me­glio di lui arrivando quarto (2016) e piazzandosi poi nono al Giro un anno fa. Dei gemelli Yates, quello più talentuoso è sempre stato considerato Simon, tanto è vero che il team Sky, la formazione di Wiggins prima e di Froome adesso, aveva corteggiato insistentemente il ra­gazzo. Sembrava tutto fatto, ma Simon aveva posto una condizione: se mi volete, viene anche mio fratello. Sir Da­vid John Brailsford voleva solo lui, e il trionfatore del Giro ha declinato l’invito: «Se non volete Adam, non avrete neanche me».

IL GRAN RIFIUTO. Così Simon ha optato per una formazione australiana, quella di Shane Ban­nan. «Ho fatto la scelta ideale per me, perché qui si può crescere con gradualità e senza pressioni eccessive - ha spiegato a più riprese, in queste magnifiche tre settimane italiane, l’inglese -. E poi mi piace la mentalità australiana che è calma e rilassata. Anch’io sono così. E sto amando l’atmosfera del Gi­ro per lo stesso motivo. Il mio ciclismo è questo. Amo la libertà. Amo an­dare in bicicletta, ma odio quando una passione diventa tortura».
Prendete il suo rapporto con il coach Alex Camier: un’intesa basata sulla fi­ducia, l’amicizia e la leggerezza.
«Mi allena da prima del Delfinato dello scorso anno - ha spiegato dopo la cro­no di Rovereto -. Siamo quasi coetanei (il tecnico è britannico e ha 30 anni, era un pilota di superbike, ndr). Vive ad Andorra come me, mi segue in allenamento in moto o con l’auto. Ab­bia­mo un rapporto come lo possono avere degli amici. Questo mi piace. Se l’allenamento fosse troppo costrittivo, se diventasse un regime, non mi piacerebbe e andrei per i fatti miei».

SANGUIGNO. In Israele Lance Armstrong non ha avuto dubbi: «Va forte dappertutto, lo ve­do almeno sul podio». «Ha detto così? - dice la maglia rosa -. Sincera­men­te non lo sapevo. Non sto molto a sentire quello che si dice in giro».
Non ha modelli, e nemmeno idoli. An­che se ai due ragazzi Yates è sempre piaciuto un sacco un corridore come Pu­rito Ro­driguez.
«Come lo avreste definito Joaquin? Da Grandi Giri o da classiche? Riusciva ad essere competitivo in entrambi, io voglio essere così. Io non amo il ciclismo troppo specializzato».
A Simon non interessano assolutamente i discorsi che fanno gli altri. E anche lui è tipo che taglia corto, ma dice sempre e solo quello che pensa: «Sono ve­nuto al Giro per vincere», ha detto fin da subito. Le tappe? O la classifica? «La classifica, ovvio».
All’apparenza Simon può apparire spocchioso. Un po’ ruvido e sbrigativo. Molto pieno di sé. Sicuramente sa quello che vuole e quello che vale. Il suo è un ciclismo molto più sanguigno e istintivo. A proposito di sanguigno, Bury - il suo paese - è famoso per il sanguinaccio e c’è chi ha provato a ribattezzare Simon «The Flying Black Pudding», il «sanguinaccio vo­lan­te». Lui non ha gradito.
Dal sanguinaccio al broncodilatatore. Anche Si­mon, come l’illustre Froome, ha avuto problemi e, quindi, una sanzione e di quattro mesi per un controllo positivo alla terbutalina (broncodilatatore, stessa «famiglia» del salbutamolo di Froome, ndr) alla Parigi-Nizza 2016. Ave­va la prescrizione medica per l’asma, ma la sostanza non era stata di­chiarata dal medico del team nell’autorizzazione di uso terapeutico.

CRISI. Il suo sogno rosa, dopo 18 giorni ad al­tissimo livello, è naufragato sul Colle delle Finestre. «Non ho nessun rimpianto. Sono deluso per la sconfitta ma orgoglioso per quello che ho fatto. Quando Froome ha attaccato, ero già dietro, ero veramente esausto. Ma tornerò al Giro d’Italia per vincerlo».

GOLDEN BOY. Ha un passato di alto livello in pista: iridato dell’americana da Junior (nel velodromo bresciano di Montichiari, ndr), e della corsa a punti tra i grandi nel 2013 (a Minsk). Nati il 7 agosto 1992 a Bury, non lontano da Manche­ster, sia Simon che Adam hanno contratto la passione per il ciclismo grazie ai loro genitori. La biografia, per Si­mon, parla di altezza 1.72 e un peso di 58 chili. E grazie a loro il ciclismo ri­schia di parlare ancora, e per lungo tem­po, inglese. Lo chiamavano il «golden boy», quando nel 2013 vinse due tappe al Tour de l’Avenir.

L’AMORE. La conosce al Tour, nel 2014. Si chiama Mareva, ed è una ragazza francese, con la quale adesso Simon vive ad Andorra. «Abbiamo cominciato a parlare al traguardo della tappa di Chamrousse (la vinse Vincenzo Nibali in maglia gialla, ndr), poi ci siamo rivisti alla partenza del giorno dopo da Grenoble. Lei collaborava con una squadra (l’Ag2r, ndr). È iniziato tutto così».

CINQUE MINUTI. Simon è stato più veloce di Adam sin dalla nascita, visto che è venuto al mon­­do cinque minuti prima. Sono mol­to uniti e anche parecchio competitivi: sin da bimbetti, si sfidavano con corse da un semaforo all’altro. Cosa li accomuna? Tantissime cose, dalla passione per la bicicletta, alla gioia di stare all’aria aperta. Da ragazzini juniores, en­trambi andavano in pista nel velodromo di Manchester. Ancora oggi, quando si trovano ad allenarsi sulle strade native, amano andare alla sala da thè Holden Wood, a una trentina di minuti da casa.
Segni di distinzione? Solo chi li conosce bene riesce a notare tutte le differenze, come in un gioco della Settima­na Enigmistica. Vittorio Algeri, direttore spor­tivo bergamasco di Simon alla Mit­chel­ton Scott, assicura che il naso del vincitore di tre tappe al Giro punti in una direzione di­versa rispetto a quello del gemello. E poi il sorriso di Simon è più largo; i suoi capelli più corti; la sua barba più rasata. Adam ha una cicatrice che gli scorre sul lato destro del men­to.

PISTA. L’inizio è stato pista, un po’ per caso, tanto per passione. «Papà John ora è in pensione, prima faceva il tuttofare in una ditta - racconta Simon - ed era un runner molto appassionato: correva le maratone. Poi ha avuto qualche problema con i legamenti, le ginocchia han­no accusato problemi e, come spesso capita, ha cominciato a pedalare. Un giorno è andato a trovare degli amici al velodromo di Man­che­ster, non lontano da Bury, dove io e mio fratello siamo nati e dove tutt’ora i miei ancora vivono. Ha portato me e Adam, credo avessimo 6-7 anni: è stata subito una folgorazione. Ci è piaciuta subito da matti quell’atmosfera e nel fine settimana successivo già pedalavamo in pista».
Non hanno altri fratelli. «Mamma Su­san lavora come impiegata nella società delle Autostrade - ha spiegato sempre  il capitano della Mitchelton Scott -. Io, come papà, sono appassionato di maratone. E di calcio. Tifo da sempre per il Manchester United e quando vivevo a Bury avevo anche l’abbonamento all’Old Trafford per tutta la stagione. L’amarezza più grande di questo Giro? Aver perso la Coppa d’In­ghil­ter­ra contro il Chelsea di Antonio Conte. Quella sconfitta proprio non ci voleva. Non mi è andata giù».
La pista è il primo amore, anche se il suo cammino non è paragonabile a quello di Bradley Wiggins. «Siamo due corridori assolutamente diversi. Brad­ley è stato una leggenda della pista, a me sarebbe piaciuto andare a caccia dell’oro olimpico, ma la corsa a punti è uscita dal programma. Ma in ogni caso, fin da ragazzino, io ho sempre avuto in testa i Grandi Giri: ho perso 5-6 chili, sono molto diverso rispetto a quando andavo in pista, anche se continua a pia­cermi un sacco».

COMPETITIVI. «Erano ragazzini molto competitivi. Si sfidavano in continuazione per qualsiasi cosa - racconta Nick Hall, presidente del Bury Clarion Cycling Club -. Par­ti­vano da un semaforo, arrivando a quello successivo. Oppure sceglievano le fermate dell’autobus, un classico».
Adesso Simon ha vinto tre tappe al Giro e corso da protagonista in ma­glia rosa, come la prenderà Adam? Per la risposta, basta attendere il Tour.

da tuttoBICI di giugno

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