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L'ORA DEL PASTO. I CAPOLAVORI DI BERRUTO E MARTINI
di Marco Pastonesi | 12/07/2019 | 07:38

 

Nelle agende di Alfredo Martini, come riportato nella tesi di Dario Baldi (“Ciclismo e storia d’Italia: la figura di Alfredo Martini (1921-2014)” –, una pagina è dedicata ai suoi pensieri sul tecnico. In cinque punti. Il primo: “Un tecnico sarà ascoltato e seguito in virtù della sua spiccata personalità”. Il secondo: “Il rischio di un tecnico incomincia nel momento in cui è convinto di non avere più niente da imparare”. Il terzo: “Un tecnico deve distinguersi nel saper infondere fiducia all’atleta. Perché? Perché l’uomo, l’atleta, ha sicuramente più forza di quello che pensa. Il tecnico deve rendere viva quella forza”. Il quarto: “Il tecnico deve sempre accertarsi che il ruolo assegnato a un atleta sia ben accettato dal prescelto”. Il quinto: “Il dovere di un tecnico è anche quello di conoscere il più possibile il carattere dei suoi atleti; una delle cose da fare per approfondire la conoscenza è quella di osservarli prima di una gara importante, durante lo svolgimento della medesima e il comportamento dopo che questa è terminata”.

Pensavo a questi comandamenti leggendo “Capolavori” (Add editore, 208 pagine, 16 euro), in cui Mauro Berruto racconta le sue esperienze – laureato in Filosofia (in particolare: antropologia culturale), allenatore di pallavolo (fino a c.t. della Nazionale italiana), amministratore delegato della Scuola Holden (narrazione), direttore tecnico della Nazionale italiana di tiro con l’arco – sportive e umane. Berruto comincia da un momento speciale: la medaglia di bronzo all’Olimpiade di Londra nel 2012 consegnata agli atleti (non agli allenatori, “forse per ricordare loro l’importanza di saper fare un passo indietro”).

Poi torna indietro, ricomincia dal gesto dell’allenare e propone le parole di Muhammad Ali: “I campioni non si costruiscono in palestra. I campioni si costruiscono a partire da qualcosa che hanno dentro. Un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere abilità e volontà. Ma la volontà dev’essere più forte delle abilità”. Quindi narra e spiega: la natura dei suoi sport, le esperienze in Grecia e in Finlandia, gli insegnamenti di maestri come Giampaolo Montali e Julio Velasco, la parabola con gli azzurri fino alle dimissioni dopo che, a Rio, un anno prima del torneo olimpico, aveva rispedito a casa quattro giocatori colpevoli di non aver rispettato l’orario di rientro in albergo. Un caso clamoroso, ancora ustionante, tanto da indurre Berruto a non nominare tre dei quattro giocatori.

I “Capolavori” considerati da Berruto sono il secondo gol di Diego Armando Maradona nell’Argentina contro l’Inghilterra dopo aver dribblato sette avversari, ma anche il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina; l’esercizio agli anelli di Jury Chechi ai Giochi di Atlanta nel 1996, ma anche l’IKB 82 di Yves Klein esposto al Guggenheim Museum di New York; lo straziante arrivo della maratoneta Gabriela Andersen-Schiess all’Olimpiade di Los Angeles nel 1984, ma anche “L’atleta di Fano” e “Il pugile a riposo” di Lisippo, il primo custodito a Malibu in California, il secondo al Museo Nazionale a Roma. Capolavori di bellezza, ma anche di fatica; capolavori di perfezione, ma anche di imperfezione; perché i capolavori non si trovano solo nelle vittorie e nei vincitori, ma anche nelle sconfitte e negli sconfitti. Il capolavoro, sostiene Berruto, è quando “riusciamo a sublimare il gesto tecnico fino ad annullarlo, arriviamo a una specie di ‘satori’ sportivo, un istante di piena illuminazione, una sorta di annullarsi cosciente del soggetto”. Cioè: “Atleti completamente liberi”. E “a quel punto l’allenatore, raggiunto il proprio capolavoro, può sparire. Il suo lavoro è terminato”.

E su questo anche Martini sarebbe d’accordo.

 

 

 

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