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IL GIRO DELLA MEMORIA. LA LIBERTA' DI FARISATO, 13a TAPPA DEL GIRO 1968
di Marco Pastonesi | 22/05/2020 | 07:54

Dal 9 al 31 maggio si sarebbe dovuto disputare il Giro d’Italia 2020. Tuttobiciweb lo corre comunque, giorno per giorno, con la forza della memoria. Oggi la tredicesima tappa: Lino Farisato ci racconta quella del 1968.

“Alla partenza, a Cortina, Eddy Merckx mi disse di stare davanti, a controllare, a tirare, a presidiare. Tanto, dopo, ci avrebbe pensato – come al solito – lui. Così mi misi davanti. E quando nacque la fuga buona, mi c’infilai dentro. C’era Vito Taccone, c’era Giancarlo Polidori, c’era Rudi Altig... Sette o otto. A quel punto non sapevo più bene che cosa fare: controllare?, tirare?, presidiare? Mi venne in soccorso, sull’ammiraglia, Marino Vigna. Rimani qui, disse, e fai la tua corsa. E se dietro succede qualcosa, aggiunse, ti fermo io. Centosessantatrè chilometri e due salitone. Sulla prima, il Nevegal, sterrato, dalla parte vecchia, mi venne voglia di vincere il gran premio della montagna, attaccai, per un po’ soltanto Altig mi venne dietro, in cima passai da solo. Aspettarlo? Magari giù. In fondo alla discesa avevo un pio di minuti di vantaggio. Aspettarlo? Anche no. La seconda salita era il Cansiglio, poi la discesa su Vittorio Veneto e l’arrivo, braccia al cielo”.

Primo Lino Farisato, secondo Altig a quasi quattro minuti, poi il gruppo a più di sei: la sua prima vittoria da professionista. “Nato a Torri di Quartesolo, garzone di fornaio a Vicenza, e lì tutti che parlavano di Imerio Massignan, quello sì che è un corridore, quello sì che è uno scalatore, quello sì che è un campione, ed è così che mi venne la passione per il ciclismo. Ma avevo bisogno, come minimo, di una bicicletta. Con le mance di Natale mi comprai una Legnano da corsa, la bici di Massignan. Due anni da esordiente, due da allievo, uno da dilettante, un paio di vittorie importanti e un secondo posto all’Astico-Brenta, che qui da noi vale più del campionato del mondo, e pensare che il primo, Guerrino Dean, un triestino, non passò mai professionista. I primi due anni alla Mainetti, una squadretta formata da neoprofessionisti più Marino Fontana, il secondo anno anche da Renzo Fontona. Quando sciolsero la Mainetti, passai alla Faema. Era il 1968. Il general manager era Fiorenzo Magni. Andai a Monza, nella sua concessionaria di auto Lancia, nel suo ufficio, alla sua scrivania: ah, Farisato, dai che sistemiamo il contratto, disse, estrasse un foglio da un cassetto e me lo fece firmare. Altro che procuratori, altro che trattative, altro che incentivi. Era già tanto così”.

Farisato trovò due capitani: “Eddy Merckx e Vittorio Adorni. Due gran signori. Merckx chiedeva, ma non pretendeva. Adorni spiegava e insegnava. Io ero un passista-scalatore, davo quello che avevo, non mi tiravo indietro. Come il giorno prima di Vittorio Veneto: 213 chilometri, da Gorizia alle Tre Cime di Lavaredo, pronti via pioggia, una fuga di 12, io evasi dal gruppo e stavo per riprendere i fuggitivi quando poco prima del Lago di Misurina mi si spense la luce, avevo mangiato poco, ero stanco morto, e Merckx e Adorni mi superarono come se fossero due motociclette. E poi Italo Zilioli, il più signore di tutti: venne anche al mio matrimonio, e ancora adesso mi telefona per sapere come sto. Ma quanti signori nel ciclismo. Lo era anche Alfredo Martini, il mio direttore sportivo alla Ferretti. Mi diceva: se ne hai, vai”.

Martini raccontava che spesso, se non sempre, Farisato portava gli occhiali scuri. Non erano come gli occhiali di adesso, leggeri e aggressivi. Quelli erano grandi e pesanti. Li portava un po’ per vezzo e un po’ per necessità, per proteggersi dalla polvere e dal vento. Un giorno, in corsa, Farisato non si accorse di una fuga, non inseguì, insomma, come si dice in gergo, dormì. E allora Martini lo scosse, lo svegliò, lo rimproverò. E levati ‘sti occhiali, gli disse. Farisato ubbidì: se li tolse e se li mise in tasca. E continuò a pedalare tranquillamente in gruppo. Smesso di correre, Farisato aprì una pasticceria a Vicenza, la stessa dove oggi lavorano due dei suoi tre figli. “Uno che fa dolci – concludeva Martini – non può mica essere un tipo amaro”.

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