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IL GIRO DELLA MEMORIA. FURIA ZANDEGU' A CHIANCIANO NEL 1967
di Marco Pastonesi | 12/05/2020 | 07:48

Dal 9 al 31 maggio si sarebbe dovuto disputare il Giro d’Italia 2020. Tuttobiciweb lo corre comunque, giorno per giorno, con la forza della memoria. Oggi la quarta tappa: Dino Zandegù ci racconta quella del 1967.

“Me la ricordo come se fossi oggi: la Firenze-Chianciano Terme, 155 chilometri, l’ultimo in leggera salita, ed erano tutti lì, da Merckx a Gimondi, da Altig a Motta, da Bitossi a Taccone, da Planckaert ad Anquetil, a cercare di vincere perché si trattava di una piazza importante anche se si arrivava su un vialone. Vinsi in volata ma per distacco con qualche secondo di vantaggio, perché ero in una giornata maiuscola, vivevo uno stato di grazia, abitavo un momento di gloria, e in quelle circostanze fortunate se non felici, personalmente parlando, era inutile per tutti gli altri venire a cozzare contro uno come me”.

Dino Zandegù, padovano di Rubano, quattro giorni dopo avrebbe compiuto 27 anni: “Ero un velocista con una mia precisa identità da fondista, non so se mi spiego. In quel Giro vinsi anche a Udine, in una volata quasi identica, sei-sette-dieci metri di vantaggio sugli altri, senza storia. Quando prendevo la situazione in mano, battermi era quasi impossibile. Peccato che succedesse raramente. Seppure corressi per una squadra importante come la Salvarani, ero indisciplinato, facevo di testa mia, nessuno mai mi tirava una volata, a quel tempo di treni c’erano solo quelli delle Ferrovie dello Stato. A quel tempo non c’era nemmeno la cultura dei treni: si sceglieva la ruota migliore e poi si cercava di saltarla, io ero un eterno indeciso, passavo da una ruota all’altra, perché queste ruote non mi convincevano o si spegnevano o si rivelavano insuperabili. Però, collezionando piazzamenti, alla fine conquistai la maglia verde della classifica a punti davanti a Merckx e a Planckaert”.

Quel Planckaert: “Era, anzi, è, perché mi risulta ancora vivo, un belga, apparteneva, anzi, appartiene a una famiglia o forse una dinastia di velocisti. Esplosivo, sfruttava il lavoro della squadra e di chi anticipava lo sprint, e seppure molto elegante nella sua pedalata, faceva paura, era pericoloso, non si faceva passare, tra gomiti e ginocchia, codate e capocciate, non c’era verso. Lui vinse tre tappe, io due, ma ero solo come un cane, perché in squadra Gimondi faceva il primattore. Però che bello: il podio, i fiori, le miss, il bacio, il ‘Processo alla tappa’, infine i giornalisti che aspettavano sotto il palco, non in sala stampa, ma allo stato brado. E niente antidoping, introdotto solo dopo la morte del povero Simpson sul Ventoux al Tour proprio del 1967. Ma io non avrei avuto nulla da temere: con il metabolismo labile e il temperamento bizantino che mi ritrovavo, l’eventuale doping o lo avrei consumato subito o mi avrebbe fatto stare male, tant’è che il mio doping si chiamava Recioto o Amarone”.

Non fu, quella di Chianciano Terme, la più bella volata di Zandegù: “La più bella della mia vita la feci per un traguardo a premi a Ponte Buggianese. La mattina uno degli addetti ai lavori della ‘Gazzetta dello Sport’ mi rivelò, in gran segreto, che Luciano Tajoli, il cantante, aveva messo in palio 100 bottiglie di Trebbiano, un vinello bianco a dir la verità un po’ scialbino da tutti i giorni, prodotto nelle sue vigne di Montecarlo, che non è quel Montecarlo in Costa Azzurra, ma in Toscana. ‘Lo dico solo a te - giurò più volte - perché so che tu ci tieni’. Sì: al vino. E mi spiegò che c’era una curva a 150 metri, poi un ponticello, poi il traguardo. A 10 chilometri da Ponte Buggianese mi portai in testa al gruppo. Ma c’erano già tutti, da Merckx ad Altig, da Durante a Dancelli, da Armani a Gualazzini, tutti pronti a sprintare per quel premio, e meno male che doveva essere un gran segreto. Così altro che ordinaria amministrazione, mi dovetti impegnare alla morte. Quando vidi la curva, presi il comando, chiusi Merckx che per non schiantarsi fu costretto a frenare, sprintai e vinsi quasi a braccia alzate. La sera, in albergo, non si parlava d’altro. Dopo cena giunse un camion dell’organizzazione, che scaricò le 100 bottiglie, con tanto di ricevuta, complimenti e foto autografata di Tajoli. Feci portare tutto in camera e chiusi la porta a doppia mandata. Senonché bussarono Altig e altri, fra cui Merckx in persona, arrabbiato per la mia presunta scorrettezza. Volevano dividere il bottino. Mi sentii circondato se non minacciato, resistetti a lungo finché, per tagliare la testa al toro, feci un’equa divisione: metà a me e metà a loro”.

Sono Dino Zandegù / e quando comincio / non mi fermo più: potrebbe essere il testo di una sua canzone autobiografica: “Dovrei aggiungere una cosa, posso? A Ponte Buggianese dormivamo nell’albergo Meucci, dove stava anche Pietro Annigoni, artista milanese, detto il pittore delle regine perché aveva fatto il ritratto di Elisabetta d’Inghilterra e altre celebrità. In quel periodo Annigoni stava affrescando la chiesa parrocchiale ed essendo, come tutti gli artisti, in bolletta, pagava il soggiorno con i suoi quadri. L’albergatore mi propose di acquistarne uno o più per poco o pochissimo. Non lo feci. Ripiegai su un paio di litografie. Che errore. Ma a quel tempo in testa avevo tutto e niente. In quell’occasione: niente. Quando lo confessai a Lalla, promessa sposa nonché intenditrice d’arte, voleva divorziare prima ancora di sposarmi”.

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