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VIAGGIO A ROUBAIX. IL VELODROMO DEL MITO
di Giorgia Monguzzi | 05/01/2020 | 08:00

L’inverno è il periodo più magico dell’anno, i giorni che precedono e seguono il Natale sono quelli più carichi di storie, racconti di terre lontane e leggende da ascoltare seduti davanti ad un camino acceso. Ognuno ha le sue tradizioni e io personalmente di favole ne avevo una preferita, quella di alcuni uomini che lottavano tra la polvere e le pietre in mezzo  in sella ai loro destrieri trasformatisi in bicicletta. Una vera guerra per raggiungere la gloria: il velodromo di Roubaix.

La cittadina di Roubaix è uno di quei tipici luoghi che non ci si aspetterebbe mai di visitare: sospesa tra il presente e il passato, un’eterna lotta tra il sopraggiungere del moderno verso le tradizioni, ma che sembra avere raggiunto il suo equilibrio. Di primo impatto è un luogo come tanti, la tipica linea di confine tra la Francia e il Belgio che è lì proprio dietro l’angolo. Ci sono strade strette e ampi vialoni fiancheggiati da negozi avvolti da una banale quotidianità, ma improvvisamente un’insegna dà un brusco cambio di rotta. Accanto alla scritta che ricorda la presenza all’interno della cittadina, c’è l’immagine di un ciclista, ma se si guarda bene più avanti non ce ne è solo uno ma molti altri. È da quel momento che ci si rende conto di trovarsi in un luogo speciale.

Arrivata a Roubaix ero un po’ spaesata, tutto mi sembrava così diverso da quello che si vedeva in televisione e soprattutto da quello che mi ero immaginata, era impossibile che in un luogo così normale arrivasse una corsa leggendaria. Mossa dallo scetticismo, ho seguito le indicazioni per il velodromo fino a giungere ad un impianto sportivo. Ben presto lo spaesamento si è trasformato nella certezza di trovarmi nel posto sbagliato e che quella storia che mi avevano raccontato non fosse nient’aro che una leggenda. Indecisa sul da farsi, ho superato una serie di gradini che sembravano portare verso il nulla ma poi, una volta arrivata in cima, eccolo...

È difficile descrivere a parole il velodromo di Roubaix, si potrebbe dire che si tratti di un anello di cemento, ma non è niente di tutto questo. Soltanto guardandolo quel luogo trasuda di leggenda, spettatore di una storia lunga oltre un secolo, rimasto a godersi lo spettacolo da una posizione privilegiata, attendendo il vincitore. È quando si raggiunge il prato al centro del velodromo che ci si può veramente rendere conto di quanto quel luogo sia in realtà un tempio, meta di pellegrinaggio per chi ama il ciclismo e tutte le leggende. È strano pensare a quanti campioni siano giunti lì, stravolti dai chilometri di pavè, sconfitti o vincitori, ma in qualche modo entrati nella storia. Mi sembra di essere d’impaccio, inadeguata a camminare sulle pendici inclinate del velodromo, eppure tutti vi possono accedere, gli abitanti di Roubaix hanno imparato a conviverci.

La sensazione di stranezza diviene maggiore quando percorriamo in senso inverso l’ultimo chilometro della Parigi Roubaix: usciti dal velodromo voltiamo a sinistra e dopo un’ampia curva arriviamo sulla strada principale dove è situato l’ultimo settore di pavè. È l’incredibile impatto con la realtà che rende quella cittadina ancora più magica: tutto intorno la vita prosegue con la sua quotidianità, nessuno sembra fare caso a quello che ogni anno avviene sul terreno che stiamo calpestando. È proprio questo il bello del ciclismo, una magia capace di raggiungere luoghi così normali e trasformarli in qualcosa di straordinario.

Sarebbero tante le storie da raccontare sul velodromo di Roubaix, per la maggior parte sono aneddoti che si ripetono ad ogni edizione nel corso della telecronaca. Spesso noi italiani pensiamo a quella cittadina come ad un luogo lontano dove si tengono le famose campagne del nord che più volte ci hanno visto come protagonisti. Pochi però sanno che lì a Roubaix gli italiani sono di casa.

La gente del posto è abituata a frequentarlo come un parco, un normale luogo di allenamento e la nostra presenza appare come qualcosa di inusuale, veniamo subito notati e appena si scopre che veniamo dall’Italia, l’accoglienza diventa calorosa. Ci viene spiegato che per loro gli italiani sono come cugini, quando parlano con orgoglio della corsa che custodiscono non possono fare a meno di ricordare le imprese dei nostri connazionali. Primo fra tutti viene messo Franco Ballerini, quell’uomo ha un posto particolare nei loro cuori, l’unico non francese che li ha fatti veramente emozionare.

Mentre stiamo percorrendo a piedi il velodromo, forse per la decima volta nel corso di una mattina, veniamo raggiunti da un uomo di nome Devid che ci viene incontro sorridente. È il custode di tutto l’impianto sportivo e, particolare non tralasciabile, è un italiano. Nato in Calabria da genitori italiani, si è trasferito in Francia da circa vent’anni con tutta la famiglia in cerca di lavoro; è arrivato nell’impianto di Roubaix come semplice addetto fino a diventare responsabile.

«Quando ho iniziato a lavorare qui io sapevo poco di ciclismo. Il mio sport è il calcio e mi occupavo di quello - ci racconta - ma poi mi sono guardato intorno e ho visto il velodromo e così ho iniziato a documentarmi. Ho capito che ho a che fare con un luogo leggendario e sono grato di lavorare dove molti miei connazionali hanno scritto la storia. Il giorno della Parigi Roubaix è per me quello più bello dell’anno e mi fa sempre strano vedere il velodromo vuoto».

Roubaix in estate fa proprio una certa impressione, è ben distante da quello che siamo soliti vedere in tv. Insolitamente vuota e divorata da un caldo che non dà tregua, eppure nel suo apparente nulla riesce a dare un’emozione incredibile. Io

Seguiamo Devid in un luogo poco distante, ci ha annunciato che per noi ci sarà una sorpresa. Arriviamo ad una costruzione che sembra un magazzino, scettici entriamo, è buio, l’uomo scompare. All’improvviso la luce, tutto d’un tratto quel luogo inizialmente inospitale si trasforma in quello che ogni appassionato di ciclismo vorrebbe visitare. Davanti a noi ci sono le vecchie docce, quelle in cui, prima dell’avvento dei grandi pullman, i corridori si sciacquavano dalla polvere delle pietre. Su ognuna un’iscrizione, il nome di tutti i vincitori della Parigi Roubaix.

Mi concedo del tempo per vederle una ad una, molti non li conosco, appartengono ad un ciclismo di oltre cento anni fa; altri invece sono i miei idoli da bambina, i campioni che ho visto in televisione, quelli per cui ho tifato, quelli che ho visto vincere. È strano come in una stessa stanza ci possano essere sia un Peter Sagan che un Fausto Coppi, insieme nonostante siano divisi da decenni di storia. Ma è proprio questo il bello della classica delle pietre che è rimasta immutata sin dal suo concepimento.

Tornati alla luce del giorno mi concedo ancora del tempo per ammirare il velodromo, una volta che lo si ha davanti è come una droga che non si può fare a meno di provare. Intanto mi guardo anche intorno, è strano pensare come in tutta quella normalità il mito abbia trovato il suo posto.

Tutto quello che vediamo entro due anni scomparirà per il fare posto ad impianti nuovi. Il velodromo no, quello non verrà toccato, perché come ci spiega Devid quello è un pezzo di storia che dovrà restare lì in eterno.

Con un po’ di amarezza decidiamo di proseguire, ci lasciamo alle spalle il velodromo, ormai la chiacchierata con Devid si è trasformata in una vera visita guidata. Davanti a noi si erge lo Stab Velodrome o “la nuova pista” come la chiamano loro. Ci incamminiamo verso quello che sembra il futuro, un improbabile incontro con il passato leggendario, ma questa è tutta un’altra storia…

 

 

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