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ADDIO A FRANCO TESTA, ORO OLIMPICO NEL QUARTETTO A ROMA 1960
di Marco Pastonesi | 22/06/2025 | 13:13

Inseguiva. L’avversario dall’altra parte dell’ellisse, sull’altra sponda dell’anello. Come in uno specchio, come in un’illusione. Come un fantasma, come un miraggio. Inseguiva nel tentativo di precederlo, nella speranza di raggiungerlo. Il senso antiorario quasi una condanna paradossale per chi doveva comunque lottare contro il tempo. Il senso antiorario come se la bicicletta fosse una macchina del tempo capace di tornare indietro, risalire, rimontare e – appunto – inseguire. Come fai a non chiamarlo destino?

Testa e coda. E’ morto Franco Testa, specialista dell’inseguimento, oro alle Olimpiadi di Roma 1960 e argento a quelle di Tokyo 1964. Aveva 87 anni (era nato a Padova il 7 febbraio 1938). Eppure, nella sua sfida al tempo, sembrava aver vinto lui: gli anni lo avevano rimpicciolito, sembrava impossibile che eccellesse in una specialità dove oggi tutti i campioni, a cominciare da Ganna e Milan, sembrano giganti sottratti al basket o alla pallavolo o al canottaggio, ma la sua lucidità, la sua ironia, la sua semplicità lo avevano reso un ambasciatore senza età di un’epoca ormai remota e sempre più romantica.

Lo avevo convocato nel 2018 per un incontro con una scolaresca a Fonzaso, nel Feltrino. Con lui altri preziosi testimoni dello sport: Antonio Uliana, gregario reduce da un ciclismo ancora bartaliano e coppiano, dunque eterno, c’era anche lui – sesto! – al traguardo polare del Bondone nel Giro d’Italia del 1956; Andrea Peron, interprete di un ciclismo più scientifico e tecnologico, campione mondiale e vicecampione olimpico nel quartetto della cento chilometri, una sorta di lunghissimo inseguimento stradale; quel marcantonio di Paolone Vidoz, pugilato, peso massimo anche nelle battute verbali e non solo manuali; e Giordano Cremonese, rugbista e fondista, soprattutto patron di quella Manifattura Valcismon che con i marchi Sportful, Castelli e Karpos ci accompagna nel mondo avventuroso ed educativo dello sport.

Testa era padovano, parlava in dialetto e si traduceva in italiano: “Dilettante, alla Trevigiani, mi hanno dato anche la bicicletta, oltre alla divisa… una Piave… era molto importante per me avere la bicicletta della società, era un riconoscimento, tanto che una volta, quando me l’hanno messa in forse, gli ho detto ‘Ah sì, eora mi vao da ‘naltra parte’, poi me la diedero”. Testa aveva la testa dura, a uno così era dura tenere testa, faceva tutto di testa sua: “Mi allenavo ogni giorno per conto mio, mi alzavo all’alba e via a correre, correvo intorno alle nostre campagne, le galoppavo in lungo e largo, d’estate e d’inverno, col buio e con la luce, col sole o con la pioggia, anche la neve, qualche volta”.

E quando ricordava quelle vacanze romane del 1960, era irresistibile almeno come quando pedalava in testa al quartetto: “Il ritiro nel convento di suore alle Frattocchie, quando siamo arrivati, c’erano diverse suore, anche giovani, anche carine… abbiamo sistemato i bagagli nelle stanze che ci erano state assegnate, e la sera ci siamo trovati tutti insieme per la cena. Da quel momento in poi, in tutte le occasioni, abbiamo visto sempre e solo suore anziane”.

Testa e croce. E’ morto Testa, e di quella fantastica squadra di ciclismo rimangono ora cinque campioni: Toni Bailetti, Beppe Beghetto, Sergio Bianchetto, Livio Trapè e Marino Vigna. Ma di Testa rimarrà sempre il suo “Volare” – i libri hanno il dono dell’eternità -, la sua storia di macellaio-ciclista, raccontata da Lucio Carraro per Unigraf con il patrocinio del Comune di Mogliano Veneto (126 pagine, senza indicazione di prezzo, parte del ricavato devoluto all’Ail). Fotografie in bianco e nero, di famiglia e di corse, canzoni e filastrocche, ricordi e testimonianze, anche quella di Fausto Coppi (“Franco, tu sei forte, hai stile e talento da vendere, l’anno prossimo sarai nella mia squadra”). Ed episodi fantastici. Quella volta che Testa aveva deciso di smettere con il ciclismo e dedicarsi alla macelleria, ma non sapeva come spiegarsi e giustificarsi, infine disse “ma mi gavaria anca da vivere”, e allora Severino Rigoni, il tecnico alla Padovani, gli mise in mano 50 mila lire, la paga mensile di un operaio. O quella volta che Testa, a tavola, prima dei Giochi di Roma, vide che a Sante Gaiardoni veniva servita la seconda bistecca, a lui e agli altri ancora niente: “Commisario – disse a Guido Costa – no va mia ben cussì, chi semo ‘noaltri? No va mia ben cussì, ara che mi va anca via!”.

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