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L'ORA DEL PASTO. RONCAGLIA, IL GANNA DEGLI ANNI '60
di Marco Pastonesi | 24/09/2021 | 07:40

Olimpiade di Tokyo. Non quella del 2020 spostata al 2021, ma quella del 1964. Ciclismo su pista, finale inseguimento a squadre uomini. Italia-Germania. Il quartetto azzurro: Vincenzo Mantovani, Carlo Rancati, Luigi Roncaglia, Franco Testa. La versione di Roncaglia: “A due giri dalla fine avevamo 20 metri di vantaggio. Rancati tira, ma rallenta. Io, per non finirgli addosso, devo frenare contropedalando. Perdiamo velocità. Anticipo il cambio. Riapro il gas. Teniamo. Ma sento Testa che mi urla di rimanere davanti. Ha visto la mia ruota posteriore, forata, che perde consistenza. Se mi alzassi sulla pista, salterei per aria. Invece scendo un po’, quasi nella zona di riposo. E improvvisando, modifichiamo la volata finale: di solito il primo si alza leggermente, il secondo va al suo esterno, il terzo al suo interno, stavolta invece io rimango basso, gli altri due si alzano. Ed è così che perdiamo la medaglia d’oro, nonostante tutto, solo per sette centesimi. Dopo 61 anni, non mi è ancora andata giù”.

Roncaglia era il Ganna degli anni Sessanta: un marcantonio base per altezza, fortissimo specialista dell’inseguimento individuale e a squadre, una locomotiva umana data anche la zona di provenienza, mantovano di Castiglione di Roverbella, una trentina di chilometri da San Nicolò Po dove nacque Learco Guerra. In quei cinque anni, dal 1964 al 1968, Roncaglia collezionò due ori (1966 e 1968) e due argenti mondiali (1965 e 1967), più quell’argento 1964 e un bronzo 1968 olimpici, tutti nell’inseguimento a squadre. Lo rivedo a Soave Mantovano, in un incontro organizzato da Guido Bonora con la collaborazione di Fausto Armanini, presidente del Comitato provinciale della Federciclo. Roncaglia, che gli altri pistard chiamavano – chissà se lui lo sa – “cagnasc”, cagnaccio. Invece: capelli bianchi e occhi azzurri. Invece: diritto, imponente, quasi solenne.

Nono di nove fratelli, famiglia contadina, Luigi era un talento naturale: “Se solo avessi avuto un direttore sportivo, avrei reso molto di più. Non avevamo tabelle di allenamenti. Si andava a chilometri o a ore. Oggi?, domandavo. Ottanta chilometri, mi rispondevano. E solo pianura: le salite, sostenevano, facevano male a chi si dedicava alla pista. Se penso che Francesco Moser, per i suoi record dell’ora, si preparava con le ripetute proprio in salita...”.

Anche lui divenne primatista: “Sui quattromila metri. A Milano, al Vigorelli. La regola era sempre quella: per capire se eri sopra o sotto il tempo da battere, il tecnico si metteva prima o dopo la linea dell’arrivo. E giro dopo giro, vedevo che continuava ad avanzare, come se stessi facendo un gran record, mi sembrava troppo, non capivo, così staccai la mano dal manubrio e la agitai per chiedergli spiegazioni. E così facendo buttai via almeno un paio di secondi”. Eppure il suo 4’52” resistette la bellezza di 24 anni.

Nel 1969 Roncaglia lasciò il dilettantismo e passò al professionismo: “La Ferretti voleva allestire una squadra di pistard, ingaggiò Beghetto, Bianchetto, Turrini e me, poi si fermò lì. Il direttore sportivo era Alfredo Martini. Beghetto vinse due tappe al Giro di Sardegna, io chiesi e ottenni di partecipare al Giro d’Italia. La prima tappa, da Garda a Brescia, vidi partire una fuga, cercai di raggiungerla, non ce la feci, ma almeno dimostrai occhio e coraggio. La seconda tappa, da Brescia a Mirandola, la conclusi in gruppo. La terza, da Mirandola a Montecatini Terme, prevedeva tre gran premi della montagna, fra cui l’Abetone. Invece di affrontarlo con il gruppo, e poi cedere un po’, lo presi con il gruppetto, quello con Basso e Zandegù, poi cedetti un po’ e arrivai – di poco, pochissimo – fuori tempo massimo. Che peccato. Anzi, che peccati. Il primo, perché il giorno dopo a Montecatini Terme c’era una tappa a cronometro di 21 chilometri, e io, partendo fra i primi, non dico che avrei vinto – vinse Merckx – ma forse sarei stato a lungo al comando della gara. Il secondo peccato perché una settimana dopo, nella tappa della Majelletta, furono una quarantina i corridori arrivati fuori tempo massimo. Ma la giuria, per non dimezzare il Giro d’Italia, li riammise in corsa. Alla riunione dei direttori sportivi, Martini protestò: la legge, più o meno disse, non è uguale per tutti, altrimenti avreste dovuto riammettere anche il mio corridore”.

Amen. Il cavalier Roncaglia lasciò la bicicletta e prese la paletta. Vigile urbano. “Il ciclismo è la mia banca dei ricordi. In occasione dell’ultimo Giro d’Italia, che passava proprio davanti a casa mia, amici e sportivi mi hanno convinto a esporre le mie maglie lungo la strada. Ma nella diretta integrale televisiva, chissà perché, non le hanno inquadrate”. Potrà rifarsi: martedì 12 ottobre, a Milano, riceverà il Collare d’oro, il massimo riconoscimento della Federciclo al merito sportivo. E il Ganna degli anni Sessanta sospira, sorride, saluta.

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