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SULLE PIETRE DELLE FIANDRE CON MUSEEUW
di Pietro Illarietti | 30/11/2019 | 07:57

Se siete in Belgio, allora do­vete andare a Oudenaar­de. Qui, nel centro dell’ordinata cittadina, trovate il mu­seo del ciclismo, o me­glio, del Giro delle Fiandre. Nul­la di vecchio e impolverato, ma una moderna struttura in vetro cemento, multimediale, che vive tutti i giorni grazie al ristorante bar sempre aperto al pubblico. La cultura del ciclismo è presente e si respira in ogni angolo di questa mecca sportiva in grado di fornire anche spogliatoi e un rimessaggio.

Calato in questa realtà, mentre bevo un caffè lungo mi appare Johan Museeuw in maglia MAPEI GB. Fatico a capire. Si tratta di una suggestione oppure sta succedendo veramente? I presenti lo guardano e si danno di gomito. Pur es­sendo una divinità, si aggira in assoluta tranquillità. Museeuw si presenta con una stretta di mano poderosa. È leggermente appesantito e con il viso solcato da qualche ruga, ma è inequivocabilmente il campione che abbiamo ap­plau­dito e ammirato.

Fuori ci sono 12 gradi e la giornata è uggiosa, in perfetto stile Fiandre.  «Per me fa caldo» spiega mentre mi tiro su la zip del giubbino che indosso e ci prepariamo ad uscire in bici in oc­casione dello Sportful Media Day.

Nella sala bar girano in loop le immagini TV della gara. Ad un certo punto faccio una battuta a Johan. «Stai attento oppure questo sprint lo perdi». Sta per partire la volata che lo vede protagonista del Fiandre 1994 quello, per noi bellissimo, con il trionfo di Gianni Bugno. Il fiammingo si ferma e osserva. Segue tutta la scena. Fa una smorfia e in perfetto italiano svela come quel secondo posto bruci ancora. Lo fa in modo piuttosto colorito. Poi entra nel dettaglio.

«Ho sbagliato la volata. Eravamo in quattro e nessuno partiva. Davanti Franco Bal­le­rini ha rotto gli indugi, poi Andrei Tchmil, Gianni e io. Sono andato a destra e poi a sinistra. Non l’ho più superato. Che nervi. Bugno, che corridore. Che classe per i grandi giri e per le classiche. Incredibile».

Usciamo sulla piazza, la cattedrale gotica è maestosa. L’aria per noi latini è frizzante. Saliti in bici, per attraversare il fiume dobbiamo superare un pon­te che si solleva idraulicamente. In questo momento si alza per permettere il transito di un’imbarcazione commerciale. È il momento giusto per guardarsi at­torno e ammirare l’architettura li­neare e spigolosa di questa serie di ca­sette.

Il campione fiammingo incute rispetto, ha gambe ancora ipertoniche, si vede che pedala e me lo conferma. «Porto fuori dei clienti ogni tanto. Og­gi, ad esempio, ce n’è uno che viene dagli USA. Ho diversi impegni, poi mi sposto spesso anche a Tenerife e il prossimo anno vorrei organizzare qualcosa di bello anche in To­scana, da Paolo Bettini (che oggi pedala con noi)».

Sulla bici ha aerografato un leone ruggente.
«Mi chiamano il Leone delle Fiandre. È un nome che mi è stato dato dopo il primo successo alla Ronde».

Per noi italiani il Leone delle Fiandre è Fiorenzo Magni, lo sai?
«Sì lo so, ma qui in Belgio sono io» e ride.

Scusa Johan se mi permetto, ma eri così estroverso anche da corridore? Io ho sempre ammirato un grande ciclista, che incuteva rispetto solo a guardarlo, presente ad ogni appuntamento che contava.
«Sì sono così, cerco sempre di vedere il lato positivo della vita. Ovviamente quando ero concentrato sull’obiettivo davo il 100%, ma è possibile farlo an­che con il sorriso».

Il Belgio ti ama ancora molto?
«Sì certo, anche se i giovani non ti co­noscono più, ma grazie i social net­work mi do da fare».

A proposito di giovani, il Belgio ha grandi campioni in arrivo .
«È vero, ma diamogli tempo. Se ti riferisci a Remco Evenepoel, lui è già pronto per un tipo di gare, ma da qui a vincere il Tour de France ci vuole ancora molto».

Questo ciclismo ti piace?
«Sì, c’è più professionalità, i corridori possono contare su ingaggi migliori ed è un bene. Le tecniche di allenamento si sono evolute e la dieta è migliorata. I ragazzi hanno capito che questa è una nuova era».

Mentre parliamo e pedaliamo, attraversiamo i posti magici con i muri del Kwa­re­mont e del Koppenberg.
«Su uno puoi perdere la corsa, sull’altro l’ho vinta».

Museeuw ci tiene fa mostrarci i mo­nu­menti dedicati all’ideatore della Ronde, il giornalista Karel Van Wy­nendaele, con una parte di questa struttura dedicata ai vincitori. «Ecco la pietra con sopra la foto degli italiani. Guarda lì, Bartoli, Tafi, Borto­lami, Ballan, Magni, Zandegù e tutti gli altri».

Il suo legame con l’Italia è ancora for­te. Ricorda con sincero affetto Giorgio Squinzi e svela che i figli hanno un nome italiano: Stefano e Gianni: «Ma non in onore di Bugno, come hanno detto. È solo che anoi piacciono i nomi italiani e li abbiamo scelti per questo».

Durante la scalata del Koppemberg lo osservo. Sale da seduto con quella pedalata legnosa e potente con i talloni verso l’interno. Toglie di ruota anche Paolo Bettini che pedala con noi. Un colosso che sale fluttuante, io rimbalzo, devo abbassare la pressione delle gom­me. Se fossi un inglese me ne uscirei con quel classico “oh my God!”. Non  riesco a credere ai miei occhi. Pedalo con un mito del ciclismo, sui muri che lo hanno consacrato. La vita sa sempre sorprenderti.

La domanda mi viene spontanea. Da corridore quanti watt avrà espresso? Azzardo la richiesta, ormai gliene ho fatte talmente tante… Ti sei mai allenato con il misuratore di potenza?
«No, mai usato. Era un altro ciclismo».

La strada, praticamente senza auto, ogni tanto presenta del fango. Siamo in autunno ma il clima è lo stesso delle classiche. I contadini sono an­cora all’opera con trattori grandi quanto un TIR.
«Coltiviamo patate, pomodori, rape. Poi alleviamo molti animali con tutta la produzione casearia».

Il paesaggio è incantevole. Il marrone della terra dei campi e l’odore di campagna, il verde brillante dell’erba, fiori gialli, l’amato pavé, una sequenza di paesini ordinati con giardini limitati da ordinari mu­retti di pietra.
Museeuw vuole regalarci tutto lo spirito delle Fiandre e propone una sequenza di aneddoti strepitosi.
«Il mio debutto nella Ronde è stato a 23 anni e feci secondo nella gara vinta da Edwig Van Hooydonck. Ero molto felice. Una volta giunto a casa però in­contrai mio padre. In quel momento ci siamo guardati. Gli ho promesso che un giorno sarei riuscito a vincere la corsa. Ho mantenuto fede a quella promessa per tre volte».

Nel frattempo siamo di nuovo in centro a Oudeenarde. Dal ristorante esce un profumo di salsicce da abbinare alle birre con i nomi dei muri. Sono talmente preso dai racconti che la fame passa in secondo piano. Il Leone è un condottiero anche a tavola. Trascina il grup­po con un sottile sense of hu­mor. Gli piace metterti a tuo agio. In pratica è lui che ti fa da gregario e ti invita a seguirlo al museo.

«Voglio spiegarti una cosa. Su questa parete ci sono tutti i vincitori della corsa. Esserci e non esserci è una differenza importante. Prendiamo l’esempio di Leif Ho­ste, che è stato un ottimo corridore. È giunto tre volte secondo, ma non è nella storia della corsa. Non è su questa parete. Purtroppo è la legge del ciclismo e di questa corsa difficilissima che Merckx è riuscito a vincere solo due volte».
Stiamo per lasciare il museo e i suoi cimeli per accedere all’area shop ricca di souvenir.

«Prima di lasciarti ti racconto un’ultima storia a proposito di Eddy, per farti capire il suo carisma. Eravamo a Lu­ga­no nel 1996 e lui era il CT del Belgio. Tre giorni prima del Mondiale mi dice che devo abbassare la sella di 2 millimetri. Io non avevo il coraggio di dire nulla ad Eddy, se lui mi diceva questa cosa dovevo fare? Lui è una leggenda. Abbiamo abbassato la sella e sono di­ventato campione del mondo. Forse lo sarei diventato ugualmente, chissà se quei 2 millimetri hanno inciso in quell’edizione così dura».

da tuttoBICI di novembre

 

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