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L'ORA DEL PASTO. I TRADITORI DELLO SPORT
di Marco Pastonesi | 21/10/2019 | 07:30

 

Lance Armstrong, innanzitutto: “L’impostore”, “Un’industria più che un uomo, pronto a commuovere con il precedente del cancro”, “Caduto dal piedistallo non per confessione ma per una serie di prove e denunce che hanno consolidato indizi e sospetti”, “E non si può dire che Armstrong sia caduto in piedi. Con lui dal piedistallo è caduto tutto il ciclismo e un’impossibile dichiarazione di purezza e di forza”.

La famiglia Rumsas, poi: “Raimondas senior, il capostipite, era stato trovato positivo all’Epo nel 2003” e “Nuovamente pizzicato e arrestato nel 2005, per un traffico di medicinali proibiti”, “Sua moglie Edita era stata arrestata nel 2002, al confine tra Francia e Italia, perché la sua auto era stracarica di prodotti dopanti”, “Linas, cavia degli esperimenti del padre” morto di doping, e “Raimondas junior, positivo a un controllo antidoping effettuato fuori competizione”, “La sostanza che rivela la sua positività è il GHRP-6, un ormone della crescita”.

Christopher Froome, infine: “Il 6 settembre 2017 è controllato alla Vuelta spagnola e nelle sue urine viene rintracciata una quantità nettamente oltre i limiti di salbutamolo”, “Il caso si trascina”, lui “partecipa al Giro d’Italia 2018”, “Il responsabile del Giro, Mauro Vegni, certifica che in caso di vittoria il successo di Froome non sarà revocato”, “Comunque si tratta una partecipazione ‘blindata’ e a prova di squalifica. Come si può definire questa ‘rassicurazione’? La validazione del principio d’impunità”.

“Lo sport tradito” (Edizioni Gruppo Abele, 208 pagine, 14 euro): Daniele Poto racconta, spiega, riesuma trentasette storie (fra cui quelle di Armstrong, Froome e i Rumsas), in cui non ha vinto il migliore, perché a dominare, spadroneggiare, imporsi sono stati imbroglioni, trasgressori, ladri. Ladri di storie, ladri di vite, ladri di sport. Tutti gli sport: non solo ciclismo ma anche calcio (la vicenda dei riflettori in Olympique Marsiglia-Milan 1991) e pugilato (i verdetti scandalosi, come quello che privò Roberto Cammarelle della medaglia d’oro all’Olimpiade di Londra 2012). Tutti gli atleti: dal maratoneta (il consapevole statunitense Frederick Lorz, che corse e vinse l’Olimpiade di Saint Louis 1904 sull’auto guidata dal suo allenatore) alla tennista (la russa Maria Sharapova, che prendeva il meldonium in buonafede, “dieci anni di assunzione su prescrizione del medico di famiglia”). Tutte le discipline: dal salto in lungo truccato (dell’ignaro Giovanni Evangelisti ai Mondiali di Roma 1987) agli scacchi (il torneo internazionale di Montebelluna, in cui “tutti gli iscritti avevano ottenuto… l’ambito status di Grande maestro internazionale”.

Il doping è il cancro dello sport, la sua malattia terminale, il suo tradimento. Ed è una tentazione irresistibile e antica: ad aiutarsi con i semi di sesamo e i testicoli dei tori, o anche invocando e ottenendo l’intervento di una dea, si cominciò fin dai tempi delle prime Olimpiadi, quelle greche. Con il professionismo, gli ingaggi e i premi, gli sponsor e il marketing, il doping (da quello chimico o farmacologico a quello finanziario o amministrativo) è diventato una scorciatoia così consueta da diventare quasi abituale, comune, normale. Tant’è vero che l’indignazione lascia posto all’indifferenza, allo scetticismo, al menefreghismo. Ed è questo il vero argomento di conversazione, e anche di questa recensione: ha senso parlare ancora di lotta al doping, sapendo che il doping è spesso, se non sempre, un passo avanti all’antidoping?, sapendo che il doping è spesso, se non sempre, di squadra o addirittura di Stato, anche se fra omissioni e omertà, fra ingenuità e immunità?, sapendo che il doping si combatte con una questione morale e infatti – per esempio: in Italia – lo sport è spettacolo e business, ma non educazione e istruzione, è culturismo, ma non cultura?

Si può leggere “Lo sport tradito” come un saggio, una tesi, uno studio, una ricerca, ma lo si può divorare anche come un romanzo, un giallo, un nero. E, nei limiti del possibile, non come punto di arrivo, ma di ripartenza. Lo sport è il reparto giocattoli della vita: davvero vogliamo smettere di sognare?

 

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