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L'ORA DEL PASTO. LUIGI CASTELLETTI, I RACCONTI DEL GREGARIO E QUEI DUE PICCOLI DESIDERI
di Marco Pastonesi | 10/12/2024 | 09:00

Si congedò dai dilettanti trionfando al Piccolo Giro di Lombardia. Era il 5 ottobre 1969. Centotrenta giorni dopo esordì tra i professionisti al Trofeo Laigueglia. Era il 15 febbraio 1970. “In salita, sul Testico, mi si affiancarono due compagni di squadra. Da una parte Marino Basso, dall’altra Michele Dancelli. Mi si attaccarono ai pantaloncini. E smisero di pedalare. In quel preciso istante capii che cosa volesse dire essere un gregario”.

Luigi Castelletti alla festa per gli 80 anni di Renato Laghi. Che è stata anche la festa dei gregari. Specialisti in fontane e bar, portatori di acqua e bibite, interpreti dei verbi tirare e spingere, inseguire e proteggere, sherpa in montagna, guardie in pianura, vagoni in volata, laureati in generosità e sacrificio all’università della strada.

Settantasei anni (nato il 6 luglio 1948, giorno di riposo nel secondo Tour de France vinto da Gino Bartali, vigilia della tappa pirenaica dell’Aubisque), veronese (di nascita in città, di infanzia in provincia a Rivalta), quarto di cinque figli (“Quattro maschi e, l’ultima, una femmina”), prima lo studio (“Le medie”), poi il lavoro (“Commesso in un negozio di abbigliamento”), quindi il ciclismo (“Si iniziava a 16 anni, e io lo feci per imitare mio fratello Giovanni, il 1963 professionista alla San Pellegrino, quarto in una tappa della Vuelta, e pensare che era primo a un km dall’arrivo poi gli fecero sbagliare strada, metà 1964 nella Firte, l’altra metà indipendente, poi rimase a piedi. E come smise lui, cominciai io”). La prima bici (“Una Zamperioli”), la prima maglia (gialla della Ciclistica San Zeno), la prima corsa (“A Schio, dove c’era la Lanerossi: terzo”), la prima vittoria (“Alla seconda corsa, a Merano, allo stabilimento della Forst: da solo”), la prima scoperta (“La volata non sarebbe mai stata il mio forte”).

Sul Testico, nel 1970, e da allora in poi, Luigi Castelletti fu gregario, uno dei migliori: “I primi due anni nella Molteni a servire non solo Basso e Dancelli, ma anche Vandenbossche e Van Springel e soprattutto Merckx, dal 1972 alla Salvarani e alla Bianchi per Gimondi, Zilioli e ancora Basso”. Gregario per esempio, per antonomasia, per eccellenza. Gregario per eccellenze. Merckx? “Esuberante, oltre i limiti. Ricordo una tappa di pianura: dopo una cinquantina di km c’era un traguardo volante, lui già alla partenza mise la sua squadra a tutta, come se quella volata fosse il campionato del mondo”. Gimondi? “Duro, tenace, ostinato, così bergamasco, non mollava mai”. E Zilioli? “Non aveva il fisico di Merckx né il carattere di Gimondi. Però era il capitano più semplice, umile, buono, nobile, umano”.

Lo chiamavano “Castello”: “Così era scritto sul tubo della bici, ma solo perché Castelletti era troppo lungo e non ci stava”. Era uomo da fatica: “Sei Giri e tre Tour”. Andava forte con il caldo: “Non andavo con il freddo, se non fossi andato neanche con il caldo, avrei fatto meglio a non correre”. Gran passista (“Testa bassa e pedalare”), modesto scalatore (“Nelle salite lunghe stavo nel gruppetto e mi salvavo, in quelle corte andavo in crisi”). Qualche cotta: “All’inizio delle corse a tappe, era normale, quasi inevitabile, poi però prendevo ritmo e coraggio”. Poca scienza: “D’inverno – si smetteva con il Lombardia e si ricominciava a inizio anno -, in quei due mesi una volta presi 14 kg e mi ribattezzarono Panettone”.

Nessuna vittoria, però un secondo posto: “Al Tour del 1972, la sesta tappa, da Bordeaux a Bayonne, fuga a cinque, volata, tre dietro di me, ma uno davanti, l’olandese Leo Duyndam, faceva anche le seigiorni”. E un altro secondo: “Al Giro del Friuli del 1974, fuga di 22, volata, 20 dietro di me, ma uno davanti, Luciano Borgognoni, faceva anche le seigiorni”. Maledette seigiorni. “Però mi sono divertito moltissimo. La bici è stata la mia evasione e la mia scuola. Ho girato il mondo e ho conosciuto i giornalisti, la prima intervista – ero ancora dilettante alla Iag Gazoldo – me la fece un giovane praticante alla ‘Gazzetta dello Sport’, era Gianni Mura”.

Castelletti diventò romagnolo per amore: “Durante le cure termali a Castrocaro conobbi quella che sarebbe diventata mia moglie”. Lo diventò anche per lavoro: “Al Credito Romagnolo, poi Unicredit”. E anche se ormai sono più gli anni passati in Romagna che a Verona, non ne ha preso l’accento: “Capisco il romagnolo, ma non lo parlo”. E adesso, la bici? “Qualche giretto”. E adesso, il ciclismo? “In tv e lungo la strada”. Il fuoco della passione, dentro il cuore del gregario per eccellenze, non si è mai spento.

PS Castelletti ha un desiderio, anzi, due: recuperare due fotografie. La prima, pubblicata su “Topolino”, lo ritrae prima di un Giro d’Italia, con altri gregari, in una fontana. La seconda, uscita sulla “Gazzetta dello Sport”, risale al Giro del 1977, in primo piano lui in bici con il patron Vincenzo Torriani in ammiraglia, fra le macerie dopo il terremoto. Qualcuno può aiutarlo?

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