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L'ORA DEL PASTO. «IL MIO PRIMO GIRO D'ITALIA», UN VIAGGIO TUTTO FRIULANO TRA SOGNI E RICORDI
di Marco Pastonesi | 14/05/2024 | 08:12

 

Per Alessandro De Marchi è stato “come un bambino nel paese dei balocchi” con due episodi incancellabili: la morte di Wouter Weylandt (“Passai di lì poco dopo, perché mi ero staccato nel finale di corsa, e non ho mai dimenticato la scena che mi si è parata davanti”) e l’arrivo sullo Zoncolan (“Il mio allenatore Andrea Fusaz mi rincorse forse per due chilometri urlando a squarciagola in una cornice di pubblico davvero indescrivibile”). Che emozioni per il suo primo Giro d’Italia. Era il 2011.

Per Jonathan Milan è stato una scommessa: “La prendo un po’ con le pinze”, “Giorno per giorno”, “Cerchiamo di divertirci”. Si è divertito: una vittoria di tappa e la maglia ciclamino di primo nella classifica a punti. Mica male per il suo primo Giro d’Italia. Era il 2023.

Per Nicola Venchiarutti è stato una sorpresa: convocato all’ultimo momento, reduce dal Covid, lo ha corso come tutti in una bolla, lontano dalla gente e dai giornalisti, lontano anche dalla primavera. Che peccato per il suo primo e unico Giro d’Italia. Era il 2020.

Per Walter Delle Case è stato il meglio e il peggio: il meglio perché, ultimo uomo del treno Atala, “abbiamo vinto tre tappe con Rosola” e “indossato la maglia rosa tre giorni grazie a Freuler e lo stesso Rosola”, il peggio perché “alla partenza avevo congedato mio padre in buona salute”, invece “alla partenza dell’ultima tappa non era più lui, il cancro lo stava divorando”. Che ribaltamento per il suo primo Giro d’Italia. Era il 1982.

Giacinto Bevilacqua ha composto 47 prime volte per “Il mio primo Giro d’Italia” (Alba Edizioni, 164 pagine, 15 euro), un libro polifonico (e tutto friulano) costruito sulla corsa che unisce l’Italia e la collega al mondo, sull’esperienza più forte nella storia di un ciclista e sull’emozione più forte nella vita di uno spettatore. Non solo corridori, ma anche tecnici, massaggiatori, attori, meccanici, collezionisti, tifosi. Non solo il Giro d’Italia dei professionisti, ma anche quelli di donne, Under 23 e paralimpici.  

Per qualcuno il primo Giro è un rammarico (Mario Condolo, due anni da professionista, “un rovinoso incidente, in un tratto di discesa sono caduto”, che gli negò non solo la corsa, ma ne compromise il resto della carriera), un ricordo (Elena Cecchini pensa a Marco Pantani, “il nome che correva sulla bocca di tutti ogni anno a maggio”), un’apparizione (Domenico De Filippo, giudice e dirigente, “a bordo strada”, folgorato da Adriano De Zan, “non avevo mai visto una telecamera mobile e il suo passaggio sull’automobile scoperta con il cameraman al suo fianco mi impressionò”), una maglia (Renato Bulfon, meccanico e collezionista: “Dopo una lunga attesa, vedo sfrecciare una nuvola multicolore. In particolare, mi ricordo un puntino rosa, che anni dopo scopro che vestiva Jacques Anquetil”).

A volte il primo Giro d’Italia sta proprio in un oggetto. Per Stefano Viezzi in una borraccia, anzi, due: “Gettate a bordo strada dai corridori. Una di colore verde fluo, apparteneva alla Liquigas, l’altra non ricordo più. Non serve nemmeno dirlo che le ho usate con orgoglio per qualche anno”. Per Tamara Versolatto in una colomba: “Desideravo così tanto la colomba che, nei giorni in cui si correva il Giro d’Italia, il supermercato del paese lanciava l’offerta 3x2…”.

 

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