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L'ORA DEL PASTO. UDILLO, VINCENZO E LA STREGA NEL GINOCCHIO
di Marco Pastonesi | 04/01/2021 | 07:50

Giro d’Italia 1965. Quarta tappa, la Rocca di Cambio-Benevento, 239 chilometri, sette ore di sofferenza appenninica. A godere Adriano Durante, primo, a recriminare Michele Dancelli, il secondo recrimina sempre, a sorridere Severino Andreoli, terzo. Fra i ritardatari, non era da lui, Vincenzo Meco. “Sto soffrendo le pene dell’inferno – dice -, tengo una strega nel ginocchio, chiamate il medico”. Chiamano il medico. Forse, azzardano, si tratta di una distrazione dei legamenti rotulei. “E dove stanno?”, chiede Meco. “Nel ginocchio”, gli rispondono. “E che debbo fare?”, insiste Meco. “Resistere”.

Meco era abruzzese di Corcumello, una frazione di Capistrello, aveva 24 anni, al quarto da professionista, una vittoria proprio al Giro, quello dell’esordio, nel 1962, la tappa fermata per neve sul Rolle, e il suo forte erano le salite. Ma quel 18 maggio 1965 teneva “la strega nel ginocchio”. Il suo dialogo con i responsabili della squadra è tragicomico. “Attento alle fimbrie”, gli raccomandano dall’ammiraglia. “E mo’ che succede?”, domanda lui. “Si possono sfilacciare”, gli spiegano. “Tutte a me, me devono capita’, maneggia, mo’ se stanno a sfilaccia’ pure ‘ste cose”.

Ma guai a lamentarsi, guai a buttarsi giù. “Arriva la macchina di Udillo Badoer, direttore sportivo di Meco. Che hai?, che fai?, forza!, gli grida Udillo. Arriva anche il dottor Frattini. La visita è volante, le fimbrie di Meco non sono sfilacciate, sono solamente allungate. Non sono sfilacciate, gridiamo dalla macchina a Meco. Sono soltanto allungate. Che debbo fare? Tengo una strega nel ginocchio. Resistere”.

Il ciclismo si ama anche per le streghe nel ginocchio, per le fimbrie (fimbrie?) allungate, per il verbo sfilacciare e per l’infinito resistere. Il ciclismo si ama anche per un libro come “Mòverla!” (112 pagine, stampato in proprio e senza indicazione di prezzo), in cui Giancarlo Zampieri racconta la storia di un’avventura ciclistica, quella della Vittadello, una squadra nata per i ragazzi, cresciuta con i dilettanti e passata al professionismo assumendo i disoccupati, o “non accasati”, come Meco e prendendo “quello che passava il convento”, maglia nera e arancione, con una grande V sul petto, e strategia di corsa alla garibaldina.

Badoer era il protagonista di questa banda di corridori: “Dall’ammiraglia, tenendosi con una mano il berrettino da corridore col frontino rialzato su cui campeggia in stampatello la scritta ‘Vittadello’ e mulinando l’altra quasi a voler spingere i corridori, è tutto uno spronare ed un incitare i suoi ragazzi”. Non dirigeva, ma sbraitava. “Eh, era ‘cattivo’ in corsa, ricorda Dante Tagliariol, il general manager. Non era affatto ‘farina da fare ostie’! Lui conosceva il suo mestiere. In corsa lo sentivi gridare. Diceva talmente tante cose e così in fretta che, quasi, non riuscivi nemmeno a comprenderle”. E quel “mòverla!” era il suo grido di battaglia: muoverla, la bicicletta, senza guardarsi indietro, muoverla, la bicicletta, anche se hai la strega nel ginocchio, muoverla, la bicicletta, anche se si stanno sfilacciando le fimbrie.

Badoer – ne abbiamo scritto per Tuttobiciweb il 10 aprile 2020 – viaggia verso gli 88 anni, ed è sempre acceso, arzillo, pimpante. Anche dal suo profilo su Facebook. Lui ha sempre saputo come muoverla, la bici, o la vita, che poi sono la stessa avventura.

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