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L'ORA DEL PASTO. L'ULTIMO SCATTO DI ROLANDO VERDINI
di Marco Pastonesi | 14/11/2020 | 07:50

Aveva un sosia. In corsa si gemellavano. Lui, più forte, mandava l’altro all’attacco, in fuga, costringendo gli avversari a inseguirlo. Poi, in contropiede, scattava. E vinceva.

Martedì scorso, 10 novembre, è morto Rolando Verdini. Era una vecchia, vecchissima gloria del ciclismo civitanovese: aveva 94 anni e mezzo. Dilettante nel secondo dopoguerra, professionista dal 1949 al 1951 nella Ganna capitanata da Fiorenzo Magni, poi indipendente e, più tardi, veterano. Scattista, anche in salita, Verdini collezionò – ha registrato tutto su carta, e la documentazione è casalinga – 94 vittorie fra i dilettanti e 10 tra i professionisti, circuiti, come quello di Ceprano nel 1953, e kermesse, come il Gran premio Mostra campionario (del Valdarno?) nel 1950. Nessun Giro d’Italia (e questo è rimasto il suo più sofferto cruccio), ma cinque Milano-Sanremo, almeno due Giri di Lombardia e tre Milano-Torino, quattro Giri di Sicilia, tre Giri delle Dolomiti (uno da dilettante e due da professionista, con un terzo, un quarto, un sesto e un settimo di tappa). Tra gli altri piazzamenti, un secondo posto al Giro di Puglia e Lucania nel 1955 e due sesti posti al Trofeo Matteotti nel 1950 e 1956. Soprattutto, il memorabile Giro d’Europa del 1954: secondo nella tappa di Como, quarto in quella di Augsburg, sesto in quella di Bologna, nono in quella di Namur, ventesimo nella classifica finale.

Era nato il 21 aprile 1926, settimo di nove figli. Elementari e medie, poi a faticare in campagna: il lavoro della terra era la povera ricchezza della famiglia. La passione per il ciclismo esplose con una bicicletta prestata per cimentarsi in una gara. Lo chiamavano “Barbetto”: la costa di Barbetto era una salita – a quei tempi dura per lo sterrato, adesso addolcita dall’asfalto – su cui Verdini si distingueva scattando, e che era costretto a fare ogni volta che tornava nella casa di famiglia, quella del padre contadino. La sua “bomba” era lo zabaione: uova e zucchero sbattuti. Poi carne, a fare sangue, e caffè, a dare elettricità.

Smesso di correre, Verdini lavorò a un distributore di benzina, nel 1968 aprì un negozio di biciclette: meccanico, di quelli che sanno dove mettere le loro mani d’oro. E il negozio, passato al figlio Fausto (nato sei mesi dopo la morte di Coppi, e da coppiano l’omaggio al suo eroe fu inevitabile), c’è ancora, in via Andrea Doria, anche se le bici hanno concesso spazio a scooter e moto.

“Mio padre – racconta Fausto – era riservato, taciturno, introverso. Il ciclismo lo riscaldava. Alla tv non perdeva le grandi corse, dalla Sanremo al Lombardia, dal Giro al Tour. Sosteneva che quello del corridore era un lavoro duro, durissimo, e le corse faticose, faticossime. La sua passione è stata contagiosa: io ho corso da bambino, dagli otto ai 12 anni, e suo nipote Alessandro ha gareggiato fra dilettanti e veterani”. Intanto quella bottega era diventata un punto di riferimento, e anche un tempio, soprattutto quando visitata da vecchi compagni di strada. “Ricordo, qui, anche Gino Bartali”, dice Fausto. E Civitanova Marche si fermava.

 

 

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