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di Marco Pastonesi | 08/04/2020 | 07:31

 

La quarantena è una buona occasione per rimediare a omissioni e dimenticanze. Così, finalmente, ecco Luciano Soave, ieri gregario, oggi artista.

“Ero un coppiano. Stravedevo per lui. Quando morì, piansi. Avevo 17 anni”.

“L’unica cosa in cui avrei potuto rivaleggiare con Coppi era nel numero degli incidenti. Il primo fu il più dannoso. Avevo 15 anni quando un’auto m’investì e mi fece volare per 20 metri. Mi rovinai il ginocchio sinistro, oltre a un paio di vertebre. Da quel giorno pedalai con un gamba e mezza, ma senza dirlo in famiglia, altrimenti mi avrebbero fatto smettere di correre e ricominciare a studiare. E io non ero fatto per rimanere fermo dietro a un banco”.

“Un’altra volta ci rimisi metà mano sinistra, e poi fu un incidente via l’altro. Però dentro di me c’era una molla sempre pronta a rilanciarmi. Lo dico sempre ai genitori: se vostro figlio non ha voglia, è dura, anzi, impossibile convincerlo a continuare. Lo sport, e non solo il ciclismo, è una vocazione”.

“Dilettante, correvo per la Bencini di Guido Zamperioli, il più bravo direttore sportivo che abbia mai avuto. Zamperioli era stato meccanico, telaista e corridore. Era del 1919, come Coppi, e avrebbe dovuto partecipare al Giro d’Italia del 1940, quello della prima vittoria di Coppi, caricò la bici sul treno, poi salì sul treno, lui arrivò alla stazione di Milano, la bici mai. Dal 1960 al 1966 creò una squadra, un gruppo, una famiglia allargata. Quella di Guerra e Andreoli, Vicentini e Carletto, Castelletti e del figlio Jano... Fece un solo errore: non battersi per promuovere l’intera squadra al professionismo. Che peccato: saremmo stati come il Chievo nel calcio. Gli sarebbe bastato coinvolgere un industriale come Rana o Sanson. Invece noi corridori ci sparpagliammo qui e là”.

“Zamperioli mi diceva che, quando avevo la luna giusta, sarei stato capace di andare dovunque”.

“Dalla fine del 1966 a tutto il 1970, quattro anni e mezzo da professionista. Perché mi ribellavo al sistema. Passavo per uno con la lingua lunga. E’ che certe scorrettezze o ingiustizie in squadra non le mandavo proprio giù. Alcuni sostenevano che mi comportassi così perché a casa mia si stava bene. Avevamo una falegnameria. Qualcosa di vero c’era: un pensiero alla falegnameria ce l’avevo sempre. Ero sempre pronto, in caso di incidente o altro, a tornare a lavorare lì. Marino Vigna, il mio direttore sportivo alla Faema, si stupiva quando, in albergo, mi scopriva a disegnare mobili”.

“Ero d’accordo con Gino Sala, il giornalista dell’Unità, quando scriveva che era necessaria una maggiore equità negli stipendi dei corridori. I gregari prendevano troppo poco rispetto ai capitani. E finito di correre, dovevano ricominciare da zero”.

“Una vittoria di tappa al Giro di Maiorca. Era il 1969. Dopo 3 chilometri, Eddy Merckx, che la notte era stato male, si ritirò e Vigna mi concesse il via libera. Avrei potuto vincere anche la classifica generale. L’ultima tappa si correva su una pista di terra battuta. Avevo preso un giro di vantaggio, ma lo speaker non se n’era accorto, così quando agli sprint un francese mi precedeva di mezza ruota, dava lui primo e me secondo, invece del contrario. Vigna mi fece capire di farmi doppiare, ma io non ne volevo sapere, finché si mise in mezzo alla pista, spalancando le braccia come Cristo in croce. Risultato: il Giro di Maiorca lo vinse Jan Janssen”.

“Un sacco di piazzamenti, fra cui un secondo posto di tappa alla Vuelta. Era il 1968. L’ottava tappa, la Benidorm-Almansa. Andò in fuga Martin Pinera, da solo. Il gruppo decise che vincesse lui, e che conquistasse anche la maglia amarillo, se la meritava, aveva quasi 37 anni, era come un Oscar alla carriera. L’arrivo era in leggera salita. Davanti c’erano Bernard Van de Kerkhove con Janssen, Rudi Altig... Scattai alla curva e arrivai con 2” di vantaggio sul gruppo”.

“Alla Faema ero considerato il doppione di Luciano Armani. Solo che lui era più furbo di me. Ed emiliano, perdipiù parmigiano, come Adorni. Così finì che corsi più in Spagna che in Italia”.

“La prima volta che alla Faema ci allenammo con Merckx, lo dissi subito ai miei compagni: quello non è il solito belga, quello è uno sbaglio della natura, quello ha una testa e un corpo che per fermarlo ci vuole un bazooka”.

“Felice Gimondi era gentilissimo da dilettante e brontolone da professionista. Quando Merckx attaccava, lui alzava un braccio e chiamava al lavoro i suoi gregari. Un incubo”.

“Merckx bisognava tenerlo buono, distrarlo, raccontargli le barzellette, altrimenti era capace di mandare tutti a casa a metà del Giro”.

 

 

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