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L'ORA DEL PASTO. RESISTENZA CASALINGA? PERLE D'ARCHIVIO - 12
di Marco Pastonesi | 24/03/2020 | 08:00

 

Nei miei cassetti, tra fogli e foglietti, inediti e dimenticati, e adesso benedetti, anche questo ritratto di Rik Van Linden, velocista fiammingo, professionista dal 1971 al 1982, strada e pista, anche in squadre italiane. Lo incontrai – non mi ricordo più – sulle strade del Giro o del Tour (e questa è la dodicesima puntata).

Rik. Nome rapido, istantaneo, velocissimo, nome da velocista, da colpo di reni, da photofinish. Tant’è che i belgi, per distinguerli, hanno dovuto classificarli in ordine cronologico. Rik I: Van Steenbergen. Rik II: Van Looy. Rik III: Van Linden.

Van Linden non fu all’altezza degli altri due Rik, ma un record lo detiene ancora: nessuno fra gli juniores, nella storia del ciclismo, ha mai vinto – come lui – 74 volte in un anno. Per lui vincere era una virtù quasi abitudinaria: 59 volte da neocadetto (giovanissimo?), 50 da cadetto (allievo?), 182 da junior, 71 da dilettante e 110 da professionista.

Era destino: “Cominciai a correre a 12 anni. Mio padre, professionista negli anni Trenta e Quaranta, era molto contento, mia madre un po’ meno, si raccomandava che andassi piano. E avevo l’onore, il privilegio, anche la responsabilità di correre su una bicicletta etichettata Van Linden. Quell’anno da junior fu magico: 75 vittorie su 80 corse, non solo allo sprint ma anche per distacco, gli avversari mi odiavano”.

Era abilità: “Per fare le volate ci vuole fegato, freddezza, seso del tempo. Bisogna scegliere la ruota giusta e mettersi alla ruota giusta, poi potenza. Te ne accorgi subito. Il mio amico Johan De Muynck lo capì alla prima corsa: all’arrivo in cinque, lui quinto. Quando gli altri scattavano, lui beccava tre metri e non li riprendeva più”.

Era lotta: “Il mio rivale era Patrick Sercu. Ma i miei avversari erano tanti, tantissimi, troppi: da Maertens a Basso, da Karstens a Godefroot, da Reybrouck a Gavazzi, ovviamente Merckx e De Vlaeminck. Le squadre non avevano treni, ci si arrangiava da soli. Per quanto possibile, negli anni con la Bianchi mi facevo proteggere da Santambrogio, poi per uscire aspettavo gli ultimi 50 metri. Forse aspettavo troppo”.

Era Italia: “Giancarlo Ferretti, direttore sportivo alla Bianchi, parlava in francese con me, in italiano con tutti gli altri. Quando, dopo 17 secondi posti, arrivai secondo per la diciottesima volta, sbottò: ‘Mi hai rotto i coglioni’. Capii benissimo. In camera stavo con lio fratello Alex, altrimenti con De Muynck. In corsa cercavo di risparmiarmi. Pativo le salite: le salite, se le conosci, le eviti”.

Era passione: “Quella c’è sempre stata. Anche adesso. Tre uscite la settimana: mercoledì, sabato e domenica, di 70-80 chilometri, in macchina all’appuntamento, poi si fa gruppetto, anche con De Muynck. Con una bici non più da corsa, ma da turismo. Con una maglia nera, neutrale. Quelle con tutti gli altri colori, comprese quella rosa al Giro e verde al Tour, in qualche valigia da qualche parte”.

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