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L'ORA DEL PASTO. UNA BICI PER CAMPANA
di Marco Pastonesi | 12/12/2018 | 07:21

Una bicicletta. Una bicicletta come scultura, come monumento, come opera d’arte, come segno della memoria, come riconoscimento eterno. Una bicicletta per Loris Campana. A Marcaria, vicino a Mantova, dov’era nato 92 anni fa.
Ne aveva 22, Campana, quando ricevette la prima bici da corsa. Una Lygie, regalo del padre. A tutto pensava, Loris, tranne che di fare il corridore: reduce dalla guerra e dalla prigionia in Africa, lavorava come geometra e pedalava per piacere. L’agonismo cominciò con uno scherzo: un amico lo iscrisse, di nascosto, a una corsa di Castel d’Ario, il paese di Tazio Nuvolari. Campana stette al gioco: gareggiò, arrivò quarto, si appassionò. E presto cominciò anche a vincere. Per distacco. “Non mi è mai piaciuto stare sulle ruote. Meglio andare via a testa bassa”. Sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica, il suo diritto d’autore.

Un’ottantina di vittorie su strada, poi la pista. Fu una folgorazione. Sui quattromila metri Campana – sempre a testa bassa - esprimeva la sua forza d’animo e di gambe, inanellava la sua ostinazione e la sua determinazione, inseguiva gli avversari ma anche la gloria. Inseguimento, appunto. Individuale e a squadre. Resistenza alla velocità, diluizione della esplosività. E l’adrenalina che si stempera nell’acido lattico. Campione lombardo nel 1951, bronzo mondiale individuale e addirittura oro olimpico a squadre nel 1952, argento mondiale individuale nel 1953, ancora campione italiano individuale e a squadre nel 1955. Un anno dopo, e di anni ne aveva 30, anche se di corse – tutto compreso - soltanto otto, scese dalla bici ed entrò in un ufficio. Geometra, fu funzionario prima al dazio, poi al catasto, a Mantova.

Campana è morto tre anni fa. Altrimenti potrebbe raccontare di quando fu convocato al raduno olimpico come riserva, ma nelle australiane (una gara a eliminazione) stracciava tutti, e allora fu provato nel quartetto (con Mino De Rossi, Guido Messina e Marino Morettini) e ne divenne titolare; di quando tornò a Mantova con la medaglia d’oro e si aspettava grandi festeggiamenti popolari, e invece non trovò nessuno; di quando ai Mondiali del 1954, nei quarti di finale, mentre affrontava l’ex iridato olandese Piet Van Heusden, fu accecato dal flash di un fotografo e finì fuori pista, e il reclamo non venne accolto.

Le figlie di Loris Campana con il sindaco di Marcaria, il consigliere nazionale Fci, il presidente provinciale Fci e il delegato provinciale del Coni

Campana era un gentiluomo – ricorda Alfredo Bonariva, compagno di squadra nella Azzini di Milano, poi professionista, anche con Fausto Coppi -. Educato, serio, di poche parole. La sede della nostra società stava in Ripa Ticinese, vicino al Naviglio, fabbrica di nebbia d’inverno e di zanzare d’estate, in una trattoria dove si giocava anche a bocce”.

“Lo ammiravo nelle riunioni al Vigorelli, che a quei tempi veniva celebrato come ‘la Scala del ciclismo’ – racconta Marino Vigna, anche lui campione olimpico nel quartetto, ma a Roma nel 1960 -. Campana era scuro di carnagione e andava fortissimo. Lo vidi anche a un raduno degli azzurri, al Grand Hotel di Brunate, vicino a Como, con Sacchi, Maspes, Pinarello. Andavo fin là in cerca di emozioni forti. Il ciclismo su pista profumava di magia”.

“Gli telefonai qualche anno fa – aggiunge Bonariva – per partecipare a una festa in ricordo della Azzini. Ma lui mi disse no grazie. Un po’ perché era, di natura, schivo. Un po’, forse, anche perché non aveva più voglia di stare in giro”. Di giri, Loris Campana, ne aveva fatti già abbastanza per entrare nella storia.


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