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L'ORA DEL PASTO. CICLOPEDIA POGGIALI
di Marco Pastonesi | 10/10/2018 | 07:49

Il suo capolavoro fu la sesta tappa del Giro d’Italia del 1971, la L’Aquila-Orvieto: “Al rifornimento, mentre tentava di prendere la sacchetta, Ercole Gualazzini cadde e si ferì. Luciano Pezzi, il direttore sportivo della Salvarani, risalì il gruppo. Il primo che vide ero io, che avevo diritto a risparmiarmi nella prima metà della corsa per essere di aiuto nella seconda. ‘Non si può lasciare Ercole da solo’, mi spiegò. ‘Ma io…’, sillabai. ‘Fermati’, ordinò. Obbedii, mi fermai, aspettai ‘Gualazza’ e insieme inseguimmo, un centinaio di chilometri, io davanti, lui dietro, tranne quando l’auto del medico lo affiancava e lo disinfettava. Vinse Domingo Perurena. E noi arrivammo al traguardo al pelo, una ventina di secondi dal tempo massimo”.

Domenica 21 ottobre, dalle 12.30, nell’Oasi Campagnola di Mareno di Piave (Treviso), Roberto Poggiali, con Flavio Miozzo, riceverà la Borraccia d’oro, il premio alla carriera assegnato dall’Associazione ex ciclisti della provincia di Treviso e riservato a chi ha dato l’anima al ciclismo (tel. 3398080361 e gbisigato@libero.it). E Poggiali, 77 anni, è un eterno addetto ai lavori: corridore, direttore sportivo, nell’organizzazione di corse e giri, un ambasciatore che non ha mai smesso di andare in bici, “anche adesso, due-tre volte la settimana, una settantina di chilometri a uscita, con le salite, ma solo quelle dove non si rischia l’infarto, e sapendo che più sale l’età, più cala la velocità”.

Fiorentino di Bellariva, figlio di un camionista e di una casalinga, secondo di tre figli, Robertino aveva un amico che lavora in un distributore di benzina, lungo i viali, contro il muro della caserma dei carabinieri. “Il mio amico aveva ricavato una sorta di salottino per ospitare i corridori, da Bartali a Nencini, che qui si fermavano per fare due chiacchiere o sistemare le bici. Io le guardavo, e le toccavo, come se fossero opere d’arte. Finché mi proposero di provare a correre. Andai all’U.S. Africo, una polisportiva vicino alla stadio della Fiorentina, con un capanno di legno. Ero in braghe corte. Un uomo grosso e rosso, forse un buon bevitore, disse che gli sembrava che avessi le gambe buone e mi trovò una bici usata. Così cominciai. Da privilegiato. Alle corse gli altri andavano in pullman, caricando le bici nella stiva, io ci andavo sulla Mercedes di quel tizio. E di Mercedes, a Firenze, ce n’erano quattro in tutto”.

Esordiente, allievo, dilettante: “Il primo anno correvo con gente di tre-quattro anni più di me, da Trapè a Fornoni, da Bailetti a Cogliati, quando ci cambiavamo nello stesso stanzone mi vergognavo, loro erano uomini, io un ragazzino. Trovai un direttore sportivo, Marcello Perugi, che mi capì: il primo anno mi fece disputare solo cronoscalate e corse brevi, in libertà, senza regole, il riscaldamento lo si faceva, quando c’era, al sole. Poi entrai nel giro della Nazionale del c.t. Elio Rimedio. Durante il mio servizio militare, si era raccomandato che partecipassi alle marce, soprattutto a quelle nel fango con gli scarponi, perfette per irrobustirmi”.

Poggiali passò al professionismo nel 1963, un anno alla Lygie, due all’Ignis, uno alla Bianchi: “Liberi di fare la propria corsa”. La svolta alla Salvarani, dal 1967 al 1972: “Gregario. Un giorno Felice Gimondi si arrabbiò con Vittorio Adorni: ‘Poggiali non lo vedo mai’. Adorni, che era il direttore sportivo, gli spiegò: ‘Tu, i gregari, li fai lavorare troppo, e quando ti servono non ne hai più. Roberto, fino a metà corsa, deve risparmiarsi’. Ma da metà corsa in poi davo tutto”. Una volta si rovesciarono le parti: “Giro d’Italia 1967. Nella seconda tappa, sul Monte Parodi, da dove si vedevano le navi da guerra ancorate nel porto di La Spezia, dalla radio di un motociclista sentii che ero maglia rosa virtuale. Quando scattò uno spagnolo, che era in classifica come me, chiesi a Gimondi di darmi una mano. Lui fu lapidario: ‘In squadra ci sono già due capitani’. Lui e Zilioli. Antonio Gomez del Moral, mio ex compagno di squadra nell’Ignis, vinse la tappa e conquistò anche la maglia rosa, con un paio di secondi su di me”.

Sedici anni da “pro”, 14 Giri d’Italia (tutti finiti: come Bartali e Gimondi), più tre Tour, una Vuelta e cinque Mondiali: “Quella volta che, Giro d’Italia 1965, in fuga con Dancelli, avevamo cinque minuti di vantaggio, eravamo rimasti senza acqua, ci fermammo nel casale di un contadino, aveva un secchio di acqua, ma calda, al sole dalla mattina, così calammo il secchio nel pozzo, ci costò una cinquantina di secondi però era fresca. Quella volta che, Giro del Piemonte 1965, sull’ultimo strappo si staccarono Mugnaini, Bitossi, Gimondi, Taccone e Adorni, rimasi da solo alla ruota di Meo Venturelli, venni affiancato dall’ammiraglia dell’Ignis, Ercole Baldini mi fece un segno inequivocabile sfregando pollice e indice, così a Meo promisi soldi, lui mi rispose di non preoccuparmi, di mettermi dietro di lui, che sarebbe partito lungo. Fu di parola: partì lungo, ma così forte che mi sfilò dalla ruota e vinse. Alle premiazioni era imbarazzato, si scusò, ‘ci ho ripensato’, però pretendeva comunque i soldi. Quella volta che Rudi Altig entrò nella mia camera e…”.

Poggiali è una “ciclopedia”: “Custodisco, anno per anno, tutti i miei diari di corsa. Lì c’è scritto tutto, soprattutto la verità. Se ne potrebbe fare un bel libro, se sui libri si potesse scrivere la verità”.
 

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