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L'ORA DEL PASTO. VALENTINO GASPARELLA VOLA ANCORA - 3
di Marco Pastonesi | 23/12/2023 | 08:08

La pista – scriveva Mario Fossati, uno che “la parrocchia” la viveva spesso e la conosceva bene – era frequentata da gente sgherra, che sfiorava il codice sportivo, quando non correva con il coltello sotto la maglia”. Ma precisava: “La ‘filibusta della pista’ permetteva qualche concessione romantica”. Valentino Gasparella apparteneva, a buon diritto, e con qualche rovescio, a quel mondo.

Era un mondo di brividi (“Mi allenavo per la pista scattando sulla strada, volate da un cartellone pubblicitario all’altro, una volta scattai abbassando la testa e quando la rialzai avevo una corriera a venti metri, riuscii a evitarla scartando da una parte, per miracolo”) ed ebbrezze (“Il mio record di velocità? Sui sessantasette-sessantotto all’ora”), miseria (“Della Seconda guerra mondiale ricordo la piazza di Isola, il mercato del venerdì, due ragazze ferme sul ponte, vicino al barbiere, e dietro di loro, nascosti, spuntavano i partigiani con i mitra. Ricordo anche gli aerei che passavano per bombardare, noi ci rifugiavamo in una grotta sotto il monte Santa Maria, e il giorno in cui scoppiò una bomba a cinquecento metri di distanza, che fece un buco grande così, e un tuono che sembrava la fine del mondo, scoppiai a piangere”) e lusso (“Fino al giorno prima avevo mangiato erba, improvvisamente mi ritrovai al ristorante Le Grand Père di Parigi”).

Era un mondo in cui convivevano Gino Bartali (“Aveva un contratto con L’Ezzelina, biciclette costruite a Romano d’Ezzelino, così veniva a trovarmi, poi si andava insieme sul monte a mangiare”) e Fausto Coppi (“Lo vidi una volta, all’Astico-Brenta, lo salutai, gli strinsi la mano, ma era uno che non dava confidenza. Anche se umile e semplice, Coppi lo consideravamo come il papa”), in cui si compensavano le occasioni mancate (“Con la Bianchi, ai tempi di Coppi e Pinella De Grandi, ma nessuno faceva il primo passo”) con le avventure impreviste (“Circuito a Crema, a organizzarlo un convento di frati, c’erano Baffi, Faggin, Adorni…, io sempre a tutta, come sempre, ma giro dopo giro vedevo corridori che apparivano e scomparivano, finché capii che s’imboscavano, tiravano il fiato per un giro e poi tornavano in corsa”), colorato di profumi e sapori (“Mia madre in cucina era un fenomeno, per la strada la gente si fermava incantata quando lei faceva da mangiare”), e a volte il colore era quello dei soldi (“Giovanni Borghi, il commendatore, ci portava nel suo hotel ristorante Bel Sit a Comerio, sopra la fabbrica dell’Ignis. Certe volte mi voleva accanto a lui: ‘Vieni qui, Gasparella’. Impossibile disubbidirgli”).

Era un mondo, avrebbe cantato Paolo Conte, in cui si sbagliava da professionisti: “Dopo la delusione delle Olimpiadi di Roma, soltanto il bronzo nella velocità, tornai a casa e smisi di correre, un anno – come si dice? – sabbatico, poi ci ripensai, ricominciai ad allenarmi sulla strada, anche sul Grappa, Imerio Massignan e Giuliano Bernardelle mi incoraggiavano, ‘vieni con noi che te li mangi tutti’, mi iscrissi alla Milano-Torino del 1962, partenza dallo stadio di San Siro, in fuga con Adorni, Bartali e il direttore di corsa Ambrosini che diventavano matti per me, i compagni che si trasformavano in gregari e mi portavano l’acqua e andavano davanti a tirare, mi staccai sul colle di Superga perché avevo i pignoni di potenza, cercai di rientrare in discesa, caddi, arrivai – credo – sedicesimo”. “Sei Giorni di Perth, in Australia, i voli interni su aerei fatti di tela cerata che sfioravano le piante, in pista abbinato a Nino Solari, abruzzese emigrato in cerca di fortuna, stavamo vincendo quando in un’americana, lui che girava piano e io che sopraggiungevo troppo forte, nel darci il cambio cademmo e fummo soccorsi, io vidi che la camicia bianca del commissario si macchiava di rosso, era la mia testa che zampillava sangue, finimmo all’ospedale, ci ricucirono e ci riportarono in pista, e chiudemmo al quarto posto”.

Valentino Gasparella, ottantotto anni e mezzo portati con leggerezza, vola ancora: “Mi dispiace, un giorno, prima o poi, dover morire. Perché la vita è bella. Sì: proprio bella”.

(fine della terza e ultima puntata)

 

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