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L'ORA DEL PASTO. L'INFLUENCER DEI POVERI
di Marco Pastonesi | 09/03/2019 | 07:46

Quella volta che, nel giro di qualche settimana, colleziona piazzamenti come un fuoriclasse, terzo al Trofeo Matteotti e alle Tre Valli Varesine, secondo al Giro del Veneto, terzo alla Coppa Placci e al Giro di Romagna, ma vittorie, come in tutta la carriera da professionista, zero.

Quella volta che Franco Ballerini, c.t. della Nazionale italiana, gli telefona mentre sta pedalando in allenamento, lui gli risponde “ma per favore, chiunque tu sia, non mi prendere per il culo”, e invece è proprio “il Ballero” che lo vuole convocare per i Mondiali.

Quella volta che, alla fine dell’ultimo raduno premondiale, Ballerini deve comunicare chi saranno le due riserve e sta per avvicinarsi a lui, lui lo anticipa e gli spiega “Franco, lo so, è difficile dirlo, difficilissimo quando le due riserve sono Paolo Bettini e Danilo Di Luca. Vabbuo’, se vuoi, glielo dico io, o altrimenti fa’ tu. Quest’anno loro, magari il prossimo anno io, sono cose che succedono”.

Lello Ferrara era Totò al Giro d’Italia. Nessun patto con il diavolo, ma la stessa simpatia, la stessa ironia, la stessa filosofia del vivere. Le migliori squadre da dilettante, Zalf e Trevigiani, la conquista di un Giro d’Italia e del Giro del Friuli. Poi 10 anni da professionista, immacolati da macchie oltre che da vittorie, ma pieni di allegria e ricchi di battute, una via l’altra, come pedalate. Un solo rammarico: mai disputato il Giro. Invece un Tour e una Vuelta, ma con finali anticipati. Ultimo anno in sella, il 2010. E poi? E adesso?

Ferrara: “Da corridore non ero nessuno, venivo da San Pietro a Patierno, un quartiere di Napoli che confina con Secondigliano, San Carlo all’Arena e Poggioreale dove ci sta il carcere, e con i comuni di Casoria e Casavatore, che solo i nomi fanno venire i brividi. Lì si sentivano gli spari, come nel Far West. Lì sopravvivere è una necessità e può sublimarsi a un’arte. Sceso dalle due ruote, sono salito su sei, due davanti e quattro dietro, quelle di un camion. Faccio il camionista, e modestia a parte, credo di essere il migliore, tant’è che se ci fosse la nazionale italiana dei camionisti, ne sarei il capitano. Faccio anche il barista, e modestia ancora a parte, credo di essere tra i più bravi, tant’è che mi hanno proposto un posto fisso, adesso che di fisso non esiste più nulla, tranne il rosso in banca. Ora ho un nuovo traguardo: mi sono autoproclamato ‘influencer’ dei poveri, e voglio diventarne il più famoso al mondo, non per farmi bello, ma per fare del bene”.

“Influencer” dei poveri? “Dare coraggio, fiducia, forza, non far provare invidia verso i ricchi. Insomma, accettare quello che si ha, anche se è poco, perché quello che si ha è comunque tanto. C’è sempre chi non ha, o ha meno, o ha solo guai. Penso a chi sta in carcere, e non ha la libertà, o a chi sta in ospedale, e non ha la salute. Io ho conosciuto la separazione, la depressione, la disperazione, la povertà, anzi, la miseria. Ero felice, mi hanno tolto tutto, e mi sono ritrovato vuoto, abbattuto e sventurato. Ma ho ricominciato. E non ho mai perduto la speranza, la voglia, l’energia. Con la mia ex moglie ho un rapporto civile, tranquillo, sereno. I miei tre figli li vedo una volta la settimana e un weekend sì e uno no. E a 42 anni sono sempre pieno di idee e progetti”.

Vulcanico, che si può capire per uno nato con il Vesuvio addosso. “L’ultima riguarda la macchina. Ero rimasto a piedi. Un benefattore mi ha regalato la sua Toyota Picnic, vecchia di 20 anni. Ho comperato un pennarello Tratto Marker, due euro e mezzo, e ho chiesto ad amici e conoscenti di scrivermi dediche e firme sulla carrozzeria. Quello che viene, viene, anche frasi tipo Baci Perugina. Così adesso la mia macchina è rinata, ed è diventata la più conosciuta e riconosciuta, indicata, ammirata ed epigrafata di tutta Castelfranco Veneto. E’ la macchina dell’amicizia. E’ la macchina della speranza”.

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