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L'ORA DEL PASTO. ILDO E LA STORIA DEL TONE
di Marco Pastonesi | 20/07/2018 | 07:39

La quinta tappa. Un’altra quinta tappa. Ed è sempre una quinta tappa del Tour: la Pau-Luchon, 229 chilometri, con le salite pirenaiche dell’Aubisque e del Tourmalet. “Scollina col primo gruppo sull’Aubisque, ma nel tratto di pianura che porta all’attacco del Tourmalet è appiedato da una foratura. Tutto da solo, toglie la ruota, cambia la gomma, risale in bicicletta e riagguanta gli avversari prima della vetta, poi con loro affronta la successiva discesa”. In fondo alla discesa, “dalle parti di Sainte-Marie-Campan, nuova foratura, nuova sostituzione, nuovo poderoso inseguimento”. In vista di Luchon, “piomba sulla coppia che s’era formata al comando, composta dal francese Eugène Faure e da Francesco Camusso e la fulmina in volata”. Che tappa: primo. Che Tour: secondo. Che uomo, che atleta, che corridore: Antonio Pesenti. Era il 1932.

Ildo Serantoni dedica ad Antonio Pesenti molto più di una biografia: è vero che s’intitola “Antonio Pesenti”, è vero che si sottotitola “una vita da ciclista (1908-1968)”, ma qui non c’è soltanto la sua storia e la sua carriera, le sue vittorie e le sue sconfitte, ma anche le sue radici e le sue eredità, la sua terra e il suo mondo, con altre storie, quelle di amici e conoscenti, di colleghi e seguaci, tutte rotonde, tutte gonfie, tutte raggianti. Il Tone, dunque: figlio del proprietario di un’osteria, ma anche sacrestano nella parrocchia del paese, Zogno, Val Seriana, Bergamasca; orfano – presto – dei genitori, causa spagnola, intesa come influenza assassina, e cresciuto dagli zii; la prima bici, un ferrovecchio, un cancello; la prima corsa, senza numero, dietro i corridori che si allenavano; la prima gara, chissà dove, chissà come, chissà quando; la prima vittoria, nella Ambria-Oltre il Colle, in salita; il passaggio al professionismo, in Francia, lui ci va in bici, corre senza squadra, esordisce con un quarto posto nella Parigi-Rouen, s’iscrive al Tour del 1929 e lo fa da isolato, assistenza zero, finché la rottura del telaio lo costringe al ritiro.

Ma questa è solo l’alba: il Tone vincerà due tappe del Giro (1930 e 1932) e una del Tour (1932), al Giro arriverà quinto (1930), settimo (1931) e primo (1932), al Tour terzo (1931) e quarto (1932), gareggerà non solo in classiche (ottavo alla Milano-Sanremo del 1932, decimo al Giro di Lombardia del 1931, quarto alla Tre Valli Varesine del 1936), ma anche in decine di circuiti e kermesse in Italia, Francia e Belgio. Poi c’è il tramonto, imprevisto, precipitoso, eppure lungo: il Tone correrà fino al 1938 (undicesimo alla Milano-Torino). Ma intanto ha già aperto una bottega, dove – nascosto in un grembiulone nero – ripara freni, gomme, movimenti centrali. E’ un altro pedalare. E da lì assisterà al pedalare prima del quasi compaesano Gino Gotti, poi di Guglielmo Pesenti, che è il figlio del Tone, e che farà prodezze in pista, velocità e tandem.

Serantoni ce l’aveva dentro, il Tone. Ce l’aveva dentro da quando suo padre – che, a guerra finita, fingendosi morto, si era salvato da una carneficina compiuta dai fascisti – gli regalò per Santa Lucia (il Natale nel Nord Italia e Nord Europa) una bicicletta di acciaio, grigia, con i freni a bacchetta, etichettata “Pesenti”. Ce l’aveva dentro da quando suo padre lo accompagnò a conoscere di persona il Tone, “questo signore qui ha vinto un Giro d’Italia”, anche se era piccolo, aveva le mani unte di grasso, più che parlare grugniva e quei grugniti in dialetto. Ce l’aveva dentro da quando ha poi cominciato a fare il giornalista, tra “L’Eco di Bergamo” e “La Gazzetta dello Sport”, sport possibilmente, ciclismo preferibilmente. Ce l’aveva dentro da quando ha poi continuato a pedalare, non solo sulla tastiera ma anche sulla bici, sulla rampa di Trafficanti e sui muri della Valcava, fra i canyon della Val di Scalve e sui tornanti (19, per amor di precisione) del Selvino.

Così “Antonio Pesenti” (Bolis Edizioni, 144 pagine, 14 euro, con la prefazione di Felice Gimondi e un album fotografico a cura di Mauro Perletti, nipote del Tone) è molto più di una biografia. Serantoni l’ha scritto con i comandamenti del giornalista (curiosità, passione, scrupolo, purezza, competenza, e la competenza è deontologia professionale), scavando in archivio (e citando le fonti) e scovando vite parallele (travolgente quella dell’isolato Gino Tramontini). E sempre con educazione, con affetto, con rispetto. Di questi tempi, un’isola del tesoro.



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