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VF GROUP BARDIANI CSF FAIZANE'. REVERBERI : «CRESCERE TALENTI E' LA NOSTRA SFIDA»
di Giulia De Maio | 01/03/2025 | 08:28

Nel ciclismo delle multinazionali e degli Stati, resiste una realtà familiare. Ci riesce grazie al cuore, come quello disegnato sulle bici De Rosa su cui pedala in giro per il mondo, che batte coperto da una ma­glia bianco-azzurra griffata Alé Cycling indossata da giovani promesse. 

Il 2025 è il 44° anno consecutivo di attività manageriale per Bruno Rever­beri, facendo così della VF Group Bardiani-CSF Faizanè il team più longevo al mondo tra tutti i team attivi nel professionismo. 

La squadra che negli anni si sarebbe fatta conoscere come ideale trampolino di lancio per i giovani debuttò nel ciclismo nel 1982 con il nome di Termolan Galli. All’epoca con il team dello “zio” Bruno divenne professionista Da­vide Cassani: l’ex CT fu il primo di una lunga lista di talenti italiani lanciati dal team dei Reverberi, un elenco che comprende, su tutti, Petacchi, Guidi, Con­ti, Podenzana, Guerini, Zanini e, in epoca recente, Colbrelli, Mo­dolo, Poz­zovivo, Brambilla, Bat­ta­glin, Cano­la, Cic­cone, Zana e Pelliz­za­ri. Ora a guidare questa squadra sotto l’aspetto sportivo e gestionale c’è il figlio di Bru­no, Roberto Reverberi, al suo 26° anno in ammiraglia. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente mentre era in ritiro in Spagna per finalizzare la preparazione dei suoi ragazzi.

Ormai ci siamo, che aria si respira da quelle parti? 

«Sembra già di essere sempre in corsa, praticamente tutte le squadre sono qui in Co­sta Blanca. Per quanto ci riguarda quest’anno possiamo contare su 23 atleti, di cui 20 italiani. La squadra si distingue come il team professionistico più giovane al mondo, con un’età media di 21,9 anni, grazie anche alla presenza di 12 atleti Under 23. Un dato reso possibile dall’inserimento di 6 ju­niores nel “progetto giovani”. Li faremo crescere con calma, anche se nel ci­clismo di oggi è sempre più complicato».

Ci spieghi meglio. 

«Scoprire nuove promesse era più semplice prima quando pescavamo dalla categoria Under 23, che ormai non esiste più. Nella nostra storia abbiamo lanciato anche “seconde scelte” che poi possono dire di aver fatto una bella carriera, ma oggi i talenti vengono in­tercettati in tenera età dalle formazioni Devo, che li ingolosiscono con la prospettiva di un futuro passaggio nel World Tour. La nostra filosofia è di dare ai ragazzi spazio per fare la corsa e mettersi in luce. Chi punta diretto ai grandi squadroni per me sbaglia, è ov­vio che se non ti sei fatto un nome pri­ma finisci a tirare per i capitani: se non ti adegui, duri poco. Se non sei un fenomeno, il grande salto può essere deleterio. Noi, e altre realtà come lo so­no state le squadre di Gianni Savio, offriamo un passaggio intermedio. Sen­za tarpare le ali a nessuno, permettiamo a chi vale di affermarsi per poi passare guadagnando cifre importanti, con un ruolo ben chiaro e con dei corridori a propria disposizione».

La costanza negli anni vi dà ragione. 

«Soprattutto all’inizio devi avere lo stimolo di allenarti e avere la possibilità di giocarti il risultato in prima persona. Per Ciccone, che a 20 anni ha vinto una tappa al Giro, quell’occasione è stata benzina sul fuoco. Lo stesso è accaduto con Colbrelli, Zana e per ultimo a Pel­lizzari, che potrebbe essere il nuovo corridore da classifica nelle grandi cor­se a tappe che tanto manca al ciclismo italiano. Nelle riunioni pre-gara ad ognuno dei nostri atleti chiedo il massimo impegno e onestà con i compagni. L’unione fa la forza e non possiamo permetterci di disperdere energie. Mi fa arrabbiare chi fa il furbo. Ognu­no ha le sue opportunità, ma per co­glierle bisogna aiutarsi l’un l’altro. Già siamo più deboli rispetto alle squadre con una disponibilità economica molto più grande della nostra...».

Rispetto alla prima squadra del ranking mondiale il vostro budget è? 

«10 volte inferiore. Il nostro viaggia sui 5 milioni, la UAE ha uno zero in più che, come potete immaginare, fa parecchia differenza. Di anno in anno è sempre più difficile competere con squadroni-multinazionali, ma noi andiamo avanti grazie ai nostri sponsor storici e a quelli nuovi che si aggiungono lungo il nostro cammino. Lavoriamo con criterio, senza sprecare, in modo parsimonioso e così facendo riusciamo a ripagare della fiducia chi ci sostiene, vincendo a volte più di formazioni World Tour. A parte le primissime squadre che fanno man bassa di successi, anche le altre della categoria maggiore sono in difficoltà perché ormai abbiamo a che fare con cifre esorbitanti».

Imporre un budget cap potrebbe essere la soluzione? 

«Secondo me no, perché un tetto alle spese può essere aggirato facilmente, un sistema più funzionale potrebbe es­sere porre un limite ai punti. All’ultima riunione dell’AIGCP, l’associazione che riunisce le squadre professionistiche mondiali, l’ho proposto. Se ogni squadra potesse ingaggiare corridori per un totale massimo di 30.000 punti, il ciclismo diventerebbe più divertente. Pensate se il campione del mondo Po­gacar invece di avere gente come Yates e Sivakov che gli spianano la strada come gregari, li avesse come avversari. Probabilmente vincerebbe comunque ma le gare sarebbero più avvincenti, mentre continuando così si elimina la concorrenza. Distribuire i migliori corridori tra le varie squadre aumenterebbe la competitività».

In attesa che le regole cambino, cosa vi spinge a stringere i denti? 

«La passione e la dedizione al nostro lavoro. Portare alla ribalta internazionale ragazzi giovani è una soddisfazione, a vincere con i campioni sono bravi tutti. Cerchiamo di andare avanti finché si riesce, anche perché i regolamenti vengono modificati così velocemente che è un attimo saltare per aria. Il Giro d’Italia per una squadra come la nostra è di vitale importanza (vi ha sempre partecipato, a parte nel 2009, ndr), ma per l’UCI non abbiamo alcun diritto. Ormai tutte le corse sono ad invito, an­che all’estero. Per tempo noi mandiamo la richiesta di partecipazione a tutte e grazie ai buoni rapporti instaurati con gli organizzatori riceviamo parecchie risposte positive, ma riusciamo a stilare un calendario buono solo a gennaio-febbraio. Dobbiamo navigare a vista, senza certezze, il che è penalizzante». 

Che ambizioni avete per quest’anno? 

«Firmerei per una stagione come la scorsa con 8-10 vittorie (25 i secondi posti, ndr) con un focus particolare sulla corsa rosa. Tra tanti giovani emergenti, qualcosa di buono verrà fuo­ri senz’altro. Puntiamo in primis a un Giro da protagonisti, vincere una tappa sarebbe un sogno. Vogliamo ben figurare anche nelle corse internazionali degli Under 23, a partire dalla corsa rosa a lo­ro dedicata e al Giro della Valle d’Ao­sta. I corridori più giovani devono pensare a crescere, a quelli più maturi chiediamo di più. Filippo Magli e Martin Marcellusi hanno finito forte il 2024, quando stanno bene e non sono frenati dalla sfortuna, come è successo, hanno le carte in regola per battagliare con i migliori. Non pretendo che vincano una classica come la Milano-Sanremo, ma devono essere nel primo gruppo. Pun­tia­mo a confermarci nella classifica a squadre della Coppa Italia delle Re­gioni, onorando come sempre fatto ogni corsa a cui ci presentiamo al via».

Questa squadra è una famiglia, non è un modo di dire. 

«Con papà lavoro da una vita, mi ha in­trodotto lui in questo ambiente. Mio figlio Gabriele dall’anno scorso si occupa di comunicazione e valorizza l’immagine dei nostri sponsor. Mi rende orgoglioso sapere che è apprezzato, dare visibilità alle aziende che pedalano al nostro fianco (con alcune abbiamo contratti fino al 2027) per certi aspetti è più importante delle vittorie. La no­stra è una struttura di 45 persone, mol­to diversa rispetto a quella in cui sono entrato come meccanico a 17 anni nel lontano 1982. Dopo 8 anni in quella veste e una pausa di 7 in cui mi ero sposato e avevo aperto un negozio, so­no ritornato in ammiraglia nel 1997. Mancava un diesse, così feci i corsi e iniziai questo percorso. Ormai sono tra i “vecchi” dell’ambiente, ho visto corridori diventare ex e poi colleghi. Fino a qualche tempo fa mi occupavo di tutto, organizzazione dei viaggi compresa, ora in squadra possiamo contare su talmente tante figure che devo “solo” coordinarle e delegare molto. Tra nu­trizionista, preparatori, medici... ognuno ha il suo ruolo ben definito anche in una realtà familiare come la nostra».

In Italia abbiamo sempre meno squadre, si sente come un nativo in una riserva indiana o un animale raro in via di estinzione? 

«Un po’ sì. Lottiamo per restare in piedi e spesso la Federazione non ci aiuta. Vi ricordate che per far passare professionista Pellizzari fummo co­stretti a tesserarlo all’estero perché vigeva una regola per cui non si potevano prendere gli junior? Poteva anche essere giusta, ma era un’eccezione del nostro paese, anacronistica. Dobbiamo ripartire dalla base. Le società giovanili stanno scomparendo. Vado in bici ogni giorno e non metterei mai in strada un ragazzino perché so quanto rischierebbe. Ci vogliono strutture protette. La priorità non è allestire una squadra World Tour italiana, ma il movimento che c’è sotto. Se non cambiamo rotta, non avremo corridori buoni abbastanza per un team. L’appassionato si esalta se Colbrelli vince la Roubaix, non gli importa se sul petto ha scritto Bahrain. In Slovenia e Danimarca non c’è un team WT ma hanno i migliori corridori del momento. Bisogna seminare tra i più piccoli prima di raccogliere con i grandi».

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