Cinque giorni al Giro d'Italia 2025. In attesa di Roglic e Ayuso, Bernal e Carapaz, Ciccone e Tiberi, Van Aert e Pidcock, viviamo il conto alla rovescia nei racconti di antichi protagonisti. Oggi, -4 al pronti-via, tocca a Pietro Partesotti.
Gregario si diventa. Pietro Partesotti era nato capitano. Capitano di sé stesso. Una forma di incoscienza, o di anarchia, o di indipendenza. Un genere di ciclismo in cui, se avevi gambe, te la giocavi, e se non ne avevi, era già tanto arrivare al traguardo. Pepòn ha 84 anni, è reggiano di Reggio Emilia e, professionista dal 1963 al 1968, di Giri d’Italia ne ha corsi quattro, dal 1963 al 1966 (più un Tour de France nel 1965 e una Vuelta nel 1968). Da gregario. Gregario di Vito Taccone, Vittorio Adorni e Felice Gimondi.
Il primo Giro?
“La prima lezione. Nel 1963. Da neoprofessionista. La prima tappa, la Napoli-Potenza, 182 km, pronti, via, via una fuga, una quindicina, dentro Adorni, Balmamion, Massignan, De Rosso, dentro anch’io, il vantaggio che saliva a vista d’occhio, finché Alfredo Sivocci, direttore sportivo della Lygie, mi ordinò di aspettare Taccone in crisi. Mi fermai, scesi dalla bici, mi sedetti su un paracarro, e su quel paracarro aspettai 13 minuti prima che arrivasse Taccone”.
Miglior piazzamento quarto: quarto nella Treviso-Gorizia nel 1963, quarto nella Viareggio-Chianciano Terme e quarto nella Belluno-Vittorio Veneto nel 1966.
“Non sono come Roberto Poggiali, un almanacco vivente, che ricorda tutte le tappe di tutti i giri e tutte le corse di tutti i corridori. Io mi ricordo poco o niente, e mi dispiace che qui faccio brutta figura. La verità è che, capita l’antifona, per me il ciclismo era diventato soltanto un lavoro, come se fosse quello di un imbianchino o un idraulico. Ho cominciato a godermi il ciclismo solo quando scesi dalla bicicletta e salii su un camper, e sul camper seguivo Giro e Tour, ai bordi della strada, sulle Alpi o sui Pirenei, fra i tifosi e gli sportivi, le salamelle e gli squacqueroni. E solo allora sentii sulla pelle quante emozioni sa regalare un uomo, o una donna, in bicicletta”.
Mai emozionato in corsa?
“Due volte. La prima Milano-Sanremo, nel 1963, che era anche la mia prima corsa da professionista, che se ci penso ancora mi commuovo. E la vigilia del Tour de France del 1965, quando a casa bussò il postino annunciando un telegramma, lo aprii, c’era scritto di presentarmi subito all’Hotel Jolly di Parma. A me vennero i brividi, a mio padre le lacrime. Là trovai Gimondi, anche lui convocato all’ultimo momento per sostituire due svizzeri, credo, che avevano dato forfait. Fu un Tour meraviglioso per la sua grandiosità, un’organizzazione gigantesca, ogni mattina prima della partenza i corridori salivano su un podio e venivano presentati – a uno a uno - da uno speaker che diceva tutto di tutti, dalla a alla zeta, e ci faceva sentire dei semidei. E fu un Tour trionfale per Gimondi, primo, ma anche per tutti noi che lo avevamo aiutato”.
Due anni alla Lygie, quattro alla Salvarani.
“Ma il gruppo era una grande famiglia. Mi ricordo, questo sì, Gianni Motta in maglia rosa nel Giro del 1966, quell’anno volava, era imprendibile, l’ultimo giorno mi dette il via libera, ‘vai Pepòn’, anche se eravamo in squadre diverse, anzi, avversarie. Motta mi chiese di passare con lui alla Molteni e Adorni con lui alla Salamini, ma a tutti e due risposi no grazie, e per un anno Adorni non mi rivolse la parola. Risposi no grazie perché alla Salvarani stavo bene, era una famiglia nella famiglia, mi trattavano come se fossi quasi un capitano. Luigi Salvarani, il grande capo, mi aveva arredato la casa, mi aveva invitato all’inaugurazione di una villa acquistata nel centro di Parma vicino allo stadio Tardini e in quell’occasione a mia moglie aveva regalato una spilla, che custodiamo ancora”.
Era tutto più umano?
“Ricordo, questo sì, tutti i Salvarani all’Hotel Andreola di Milano, dove andava anche Fausto Coppi. Era la vigilia della Milano-Sanremo del 1965. Luigi ci riunì, poi promise: se uno di voi vince, ci sono 500mila lire a testa. Una cifra, per me, enorme. Una cifra che, a un certo punto, fuga a tre – Adorni, Balmamion e l’olandese Den Hartog - ci sembrava di avere già in tasca. Peccato che poi Adorni in volata fu beffato da Den Hartog. E ricordo, anche questo sì, Luigi Salvarani quando venne alla Vuelta nel 1968 e, dopo due tappe, domandò come andasse. Italo Mazzacurati, gregario nonché cassiere, rispose sconsolato: male. Sarà come sarà, ma da quel giorno vincemmo tappe con De Prà, Altig, Guerra, Peffgen e Gimondi e indossammo la maglia di primo in classifica con Altig e infine con Gimondi. Insaziabili”.
Era un altro ciclismo anche nei rapporti con i giornalisti?
“Stavano con noi, fra di noi. Un giorno in corsa mi si avvicinò Sergio Zavoli con la telecamera. Ma stavo soffrendo, ero stanco e nervoso, e lo mandai a quel paese. La sera venne a trovarmi in albergo e mi disse che se il mio mestiere era pedalare, il suo era intervistare. Lo capii perfettamente e mi scusai immediatamente. Anni dopo Zavoli era fra i relatori di un convegno, alla fine mi feci largo fra chi gli chiedeva un autografo, mi presentai, lui si ricordava di me e io gli chiesi ancora scusa. Tanto più che, politicamente, stavamo tutti e due dalla stessa parte, anzi, io un po’ di più”.
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