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CAPITANI CORAGGIOSI. NICOLA ROSIN: «VOGLIO PORTARE COLNAGO TRA I MARCHI PIU' DESIDERATI DEL MONDO». GALLERY
di Pier Augusto Stagi | 03/04/2023 | 11:56

Se fosse stato un giocatore di basket sarebbe stato una “guardia”, come del resto è stato. Se fosse stato un ciclista avrebbe voluto essere come Tadej Pogacar e non sarebbe stato a guardare, ma tutt’al più a guardarlo, con profonda ammirazione, come del resto fa. Se fosse stato un eterno bambino avrebbe continuato a sognare un canestro nel quale far piombare una serie infinita di tiri da tre, ma visto che del bambino gli sono rimasti soprattutto l’entusiasmo e il sogno, da dirigente d’azienda si diverte a spostare sempre più in là il canestro e la linea dell’orizzonte. I traguardi van­no raggiunti, ma poi è necessario continuare a pedalare: a tutta.

Nicola Rosin, l’amministratore delegato della Colnago che dal maggio del 2020 è entrata a far parte della galassia araba della Royal Group, pedala veloce e lo fa con una squadra giovane e entusiasta. L’abbiamo incontrato a Cam­biago per conoscere da vicino una delle figure centrali del mondo del ciclismo, uno dei “capitani coraggiosi” che animano la grande famiglia dell’industria delle due ruote, che ha vissuto in pieno Covid una clamorosa quanto improvvisa esplosione di passione e ora è alle prese con una altrettanto stimolante sfida che dovrà garantire in futuro stabilità e crescita.

Nicola Rosin è il nostro primo “capitano coraggioso”, la nuova rubrica che tuttoBICI vara da questo mese e che chiaramente atterrerà anche sulle pagine di tuttobiciweb e tuttobicitech. Sarà un modo per parlare di bicicletta e ciclismo, sogni e obiettivi, strategie e mercato, ma anche l’occasione per raccontare questi capitani d’industria che da anni sono al comando di autentici gioielli industriali, che realizzano i so­gni di tutti noi inguaribili amanti di cose ciclistiche.  

Dottor Rosin, pronto a raccontarsi?
«Prontissimo».

Quanta bicicletta c’è stata nella sua in­fan­zia?
«Poca, diciamo pochissima. C’è stata, come per quasi tutti i bambini, ma nel mio caso non tantissimo. È chiaro che da piccolino ho avuto il mio triciclo e poi la mia prima bicicletta di color ros­so Ferrari, ma la passione vera è stata per un pallone a spicchi: il basket. Io volevo diventare un campione di pallacanestro, come Dino Meneghin o An­tonello Riva».

Ha giocato anche a buon livello.
«Sono arrivato al Petrarca Padova e con me protagonista o comunque da coprotagonista siamo passati dalla C alla seria A. Quell’anno in cui si giocava per accedere alla massima serie, io ero un panchinaro, superammo però in fi­nale l’Udine di Gianmarco Poz­zecco, che aveva anche lui 22 anni, co­me me».

È sempre innamorato di basket?
«Moltissimo, ma in questo momento c’è un’altra priorità: il ciclismo. Corse come la Strade Bianche o la Roubaix non me le perdo per nulla al mondo. Mia moglie lo sa: anche se sono a casa, se c’è una corsa non ci sono per nessuno. Come dice Giancarlo Brocci, il pa­pà dell’Eroica, il ciclismo ha bisogno di storie e di emozioni, e quelle strade che conducono i corridori e gli appassionati su terreni impervi aiutano ad una narrazione che è unica al mondo».

C’è una squadra di basket per la quale fa il tifo?
«Seguo tutto e spesso vado a vedere par­tite, in particolare quelle della Vir­tus Bologna che gioca in Eurolega ed è a solo un’ora da casa mia».

Facciamo un passo indietro: chi è Nicola Rosin?
«Nasco a Padova il 16 marzo del 1971, e cresco in una fantastica famiglia che ha saputo lasciare il giusto spazio a noi ragazzi, sia a me che ai miei due fratelli: Filippo (più piccolo, ma più alto: io sono 1.94, lui è 1.98) e Silvia, il geniaccio della famiglia, avvocato e mamma di tre fantastici bambini. Papà Giu­seppe è un giudice in pensione e mam­ma Giovanna insegnante di italiano in una scuola media. Devo dire che i miei genitori hanno saputo fare un grandissimo lavoro e questo l’ho potuto verificare sul campo nel momento in cui anch’io sono diventato padre. Papà e mamma ci hanno fatto sbagliare liberamente, passandoci solo due tre concetti valoriali importanti: l’onestà, la serietà e il rispetto per il prossimo. Ri­cordo che a mio padre ho sempre detto: “papà, voglio fare il giocatore di basket professionista”. Lui non mi ha mai messo il bastone fra le ruote, così come la mamma. Se ti piace, impegnati, mi hanno sempre detto».

Che tipo di ragazzino era?
«Esuberante e chiassoso, ero iperattivo e lo sport mi serviva a scaricare e incanalare con le giuste modalità l’enorme energia che avevo. Da ragazzino facevo un po’ di tutto, ma quando ho scoperto il basket è stato amore: tutto ruotava attorno a quello. Io sono fatto un po’ così: quando mi calo in una cosa, la faccio in modo totalizzante. C’era il ba­sket, punto. Un po’ come adesso: c’è il ciclismo e io vivo per dare il massimo in quello che faccio».

Fino a quando ha giocato a pallacanestro?
«Fino a 30 anni, fin quando mi sono rotto per la seconda volta il ginocchio e allora mi sono detto: adesso si cambia. Quell’infortunio è stato la chiave per aprire una nuova porta, anche se io qualche porticina l’avevo già socchiusa visto che avevo iniziato a fare altro. Ho lavorato per un breve periodo nel commerciale: prima nel mondo dell’abbigliamento e successivamente in quello del food. Poi ho deciso di spostare la priorità: fine con il basket, adesso si lavora seriamente. Dopo l’infortunio al ginocchio, sono partito a razzo».

Da ragazzo in gamba, nessuno la mette in ginocchio, nonostante i legamenti…
«E comincio a pedalare, perché dal parquet dei palazzetti entro diretta­men­te nel mondo del ciclismo, con la mia bella laurea in Economia Azien­da­le conseguita a Ca’ Foscari. È il 2001 e, come in tutte le cose, necessaria è la volontà, ma utile è trovare sulla propria strada persone che credono in te. E io trovo quelli di Selle Royal. Potrei dirle che, come i miei genitori mi hanno da­to fiducia, in loro trovo un’azienda e una famiglia che fa altrettanto. Sulla mia strada c’è una persona preziosa come Massimo Losio (marketing prodotto commerciale) che guida la so­cietà della famiglia Bigolin (il patron Ric­cardo, che fondò l’azienda nel 1956, e le figlie Barbara, Francesca e Lucia, ndr). L’azienda aveva solo un brand e nel breve volgere di tempo ho la soddisfazione di far parte di quel percorso che porta Selle Royal a crescere in ma­niera esponenziale con il lancio di nuo­vi marchi come Fizik, CranckBro­thers, Brooks England e PEdALED. In pratica entro come assistente del re­spon­sa­bile OEM (Steve Carr, ndr) e esco nel 2020 come persona apicale dell’azienda con la carica di Direttore Generale».

È sposato?
«Sì, con Patricia Onyewenjo dal 2008. Tedesco-nigeriana: mamma di Berlino e papà nigeriano. Mia moglie è un artista e non è solo un modo di dire, visto che dipinge. È una urban artist: dipinge città. Fa anche molte mostre: la prossima sarà da “Anna Breda”, una delle gallerie più prestigiose di Padova. Abbiamo un bimbo di dieci anni, Giu­lio, che per il momento ha scelto di giocare a calcio».

Da chi ha preso?
«Dalla mamma: occhi azzurri, carnagione bianchissima e capelli afro. Da lei ha preso anche la creatività, anche se l’altezza e il pensiero matematico li ha forse presi da me, visto che è anche molto bravo nel giocare a scacchi: pen­si che è stato recentemente selezionato dalla scuola per fare un torneo regionale».  

Lei e Patricia: dove vi siete conosciuti?
«Era il 2006. In quel periodo lavoravo alla Selle Royal e viaggiavo in continuazione, quindi non potevo incontrarla che in un air terminal, quello di Fran­co­forte per la precisione. Il caso volle che per la neve l’aeroporto venne chiuso, e per sei ore ci siamo trovati a parlare: da quel momento non abbiamo più smesso».

Amore a prima vista?
«Sì, un vero e proprio colpo di fulmine».

Lo sportivo ideale?
«Michael Jordan e naturalmente Tadej Pogacar».

Cosa meno tollera?
«L’indifferenza».

Piatto preferito?
«Adoro gli antipasti, il tipico italiano...».

Il film che riguarderebbe in qualsiasi mo­mento.
«Il Padrino».

Cantante o canzone preferita?
«Tutte quelle di Whitney Houston».

Torniamo al mondo del lavoro: quando viene intercettato dalla Colnago?
«Le chiedo un attimo di pazienza. Da Selle Royal esco in pieno periodo Co­vid con un pensiero fisso nella mente: sono stanco, voglio staccare un po’. Do­po ven­t’anni molto intensi ho in mente solo di prendermi due anni sabbatici. Ma dopo due mesi di clausura, cambio immediatamente idea. No, qui bisogna risalire sulla giostra. Mi arrivano voci che Ernesto Colnago starebbe pensando di passare la mano e io faccio sapere che, contrariamente a quanto avevo detto in giro, sono “available”: sono sul mercato. Gli arabi mi rispondono che avevano già ricevuto quattro referenze sul mio con­to: due dall’America, una dall’Italia e una dall’Oriente. Ricordo ancora la te­le­fonata graditissima di Ernesto Col­na­go, con la quale in pratica mi dà il suo benvenuto. Prendo un’azienda che è un gioiellino di 18 milioni di euro di fat­turato e dopo due anni siamo a quo­ta 40.  Devo dire anche che sono molto riconoscente alla proprietà, così come a Melissa Moncada che è l’anello di congiunzione tra gli Emirati Arabi e la Colnago. Una donna manager molto talentuosa e di visione, appassionatissima di ciclismo. Il primo obiettivo era la “governance”: mettere in tranquillità una società solida e ben caratterizzata che aveva solo bisogno di qualche nuo­vo innesto, di qualche nuova professionalità. Per il resto siamo a posto».

Cosa l’ha più esaltata di questa nuova avventura in Colnago?
«Sapevo cosa significasse Colnago, ero chiaramente consapevole della forza del marchio, ma sono colpito dalle op­portunità che ci sono nel lavorare con un brand così noto legato alla bicicletta: questa è una cosa straordinaria. Per non parlare poi della passione e dell’amore che ci sono attorno a questo marchio iconico. Da uomo di mar­ke­ting quale mi considero, questa è una cosa straordinaria. Ogni giorno è una nuova avventura è una nuova op­portunità. L’altra cosa, che è molto ma­nageriale, ma per me è motivo di orgoglio, è quello di aver dato forza e potere al team. Lavoro con ragazzi eccezionali. Un gruppo di competenze pazzesche, molto capace e appassionato. Mol­ti li ho trovati qui, e sono davvero colpito dal loro senso di appartenenza».

Cosa la affascinava del marchio Colnago?
«In Colnago ci avevo visto l’opportunità di portare avanti il tema della ve­ri­tà. È un’azienda autentica. Non c’è bi­sogno di raccontare tante storie, perché questo brand è già di per sé una storia che si racconta giorno dopo giorno».

Cosa che forse non ricordava Tom Boo­nen…
«Brutto episodio, ma la cosa si è chiusa come doveva chiudersi, con il riconoscimento di una uscita poco felice e le doverose scuse da parte sua».

Qual è il suo sogno?
«Dal punto di vista professionale?».

Sì.
«Portare Colnago ad essere uno dei marchi più desiderabili al mondo. E volutamente non ho detto uno dei marchi ciclistici, vorrei che fosse nel ran­king dei marchi più desiderabili a prescindere dalla categoria. E secondo me abbiamo le chance per giocarcela alla grande. A conferma di questo, e dobbiamo dosare queste opportunità, ci so­no molte richieste “beyond the core”, fuori dal core business. In questo mo­mento siamo corteggiati da molti marchi extra settore. Da questo punto di vista siamo sulla buona strada e in questa direzione abbiamo una sorpresa per il prossimo Giro d’Italia: nelle prossime settimane presenteremo la custodia del Trofeo Senza Fine e una bici dedicata al Giro d’Italia, la Colnago Gio­iel­lo».
Pogacar ha un valore inestimabile.
«Chiaramente, sia per noi che per il ci­clismo tutto. Ma la cosa bella è che non è solo un uomo solo al comando, ma c’è una generazione pazzesca che sta facendo innamorare tutti di ciclismo. Chiaro che per noi, per le nostre biciclette racing, è manna caduta dal cielo. Avere un campione così aiuta parecchio. Come le ho detto, questo brand ha un “heritage”, una storia, un valore e un’eredità non comune. I ragazzi non vogliono più narrazioni vuote, ma storie vere. Vogliono vedere e toccare. Per questo diciamo: è tutto vero! Qui è tutto vero! C’è storia, ricerca ed emozioni. La bicicletta di Po­ga­car è lì a te­stimoniarlo. Oggi, nonostante si stia vi­vendo un periodo molto urlato, percepisco la necessità di abbassare i toni. Le nuove generazioni chiedono concretezza e semplicità: esattamente come il nostro Tadej. Un ragazzo unico, ma di una sobrietà disarmante. Insomma, noi ne siamo convinti: se compri una Col­nago, compri una storia. Una gran bel­la storia».

Ce la farà Tadej a fare tris al Tour?
«Sono molto scaramantico, temo fattori esogeni, preferisco tacere».

Dopo due anni molto belli, nei quali tutte le aziende del settore cclistico hanno fatto registrare utili da capogiro, ora c’è un momento di profonda stagnazione.
«È chiaro che adesso c’è da smaltire le scorte e prevedo un periodo di tensione fino ad autunno inoltrato. La Colna­go, però, ha la fortuna di giocare un al­tro campionato, nel senso che noi sia­mo bici di altissima gamma, oggetti Luxury e non siamo toccati da questa contingenza e, per tale ragione, abbiamo un budget realistico che dovrebbe portarci a toccare almeno i 55 milioni di euro. Le posso dire un’altra co­sa?...».

Certo.
«La bici da turismo o da passeggio in ogni Paese è diversa. Quella tedesca è diversa da quella olandese, così come da quella americana. La bicicletta da corsa, invece, è uguale in tutto il mon­do: è quella lì. È iconica e quelle italiane lo sono ancora di più perché hanno una storia alle spalle molto riconoscibile. Le Colnago sono chiaramente un’opportunità. Noi non vogliamo fare volumi, noi non siamo e non vogliamo essere Trek o Specialized. Piuttosto vogliamo proseguire a regalare sogni di qualità. Non abbiamo nessuna forma di ingordigia e questa visione è condivisa dalla proprietà, così come da tutto il board. Se mai volessimo fare volumi, allora in quel caso non lo faremmo con Colnago. Il trifoglio è e deve restare per il mondo delle biciclette da corsa un’eccellenza: è storia. Manolo Ber­tocchi, il nostro direttore marketing, in questo è integralista: ognuno deve fare il proprio mestiere e la Colnago deve continuarlo a farlo così».

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