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GIULIO CICCONE, L'UOMO CHE VERRA'
di Giulia De Maio | 27/07/2020 | 08:10

A inizio anno in una divertente intervista doppia con Vin­cenzo Nibali, Giulio Cic­cone ci svelava di voler vincere il Giro d’Italia con lo Squalo, ottenere la convocazione per i Giochi Olimpici, il Campionato del mondo e conquistare anche qualcosa in prima persona. «So­prattutto voglio continuare con la mia evoluzione, fare un ulteriore salto di qualità» raccontava il Geco d’Abruz­zo dal ritiro della Trek Segafredo su tut­toBICI di gennaio.

Finora ha vinto l’unica corsa che si è disputata in Italia quest’anno: il Trofeo Lai­gue­glia domenica 16 febbraio. Poi il coronavirus ha mandato all’aria tutti i piani, fermato l’attività e costretto chiunque a una riprogrammazione a 360°. Cinque cerchi a parte, tutti gli altri obiettivi che si era prefissato il 25enne abruzzese verranno disputati no­nostante il calendario sia stato stravolto e compresso in pochi mesi.

Il ciclismo italiano è pronto a ripartire e lo fa con il sorriso di questo ragazzo che in tanti sperano possa affermarsi nelle grandi corse a tappe, infiammando il pubblico in “astinenza” quanto lui di gare. Miglior scalatore al Giro 2019, alla corsa rosa ha vinto le tappe di Sestola 2016 da neoprof e Ponte di Legno l’anno scorso, nel giorno del Mor­tirolo, per regalarsi poco dopo due giorni da leader al Tour de France.

«Vestire la maglia gialla è stata un’emozione inattesa quanto forte. Ora vorrei provare quella di indossare la ma­glia rosa» ci confidava sempre in quella simpatica chiacchierata a due di sei mesi fa.

Giulio, da allora sembra passata una vita.
«Davvero, pare passata una stagione ma in realtà non abbiamo praticamente corso. Abbiamo vissuto un periodo particolare e imprevisto, che ognuno ha gestito come ha potuto. La mia quarantena è iniziata ad Abu Dhabi nel famoso hotel dell’UAE Tour in cui so­no scoppiati i primi ca­si, poi sono rientrato a Mon­te­carlo e lì per 10 giorni mi sono allenato nella speranza che avremmo continuato a correre, fino a quando è iniziato il lockdown. Ho trascorso 50 giorni in un piccolo appartamento, completamente da solo, uscivo solo per fare la spesa. L’ho vissuta peggio di altri, mi è pesata parecchio soprattutto a livello mentale. Il ciclismo virtuale mi ha salvato, se così si può dire. Mi sono mes­so alla prova, ho fatto fatica con gli amatori, li ho intrattenuti e mi sono tenuto impegnato (ha anche vinto la sfida tra campioni The Cycling of the Stars, ndr). Siamo stati catapultati in una realtà con abitudini e orari diversi, ci siamo dovuti adeguare, facendo di necessità virtù. I rulli ti permettono co­munque di fare buoni lavori, però allo stesso tempo ti logorano. E poi la real­tà virtuale... resta tale. Il ciclismo è al­tra cosa. Non sono neanche comparabili. Da casa puoi modificare il peso e il tuo avatar è più veloce. O avere tarato uno strumento in maniera diversa. Dal vivo sei tu, la bici, i rivali, la salita. Dal 4 maggio sono tornato in Italia e sono rinato. Trascorrere una ventina di giorni in Abruzzo con famiglia e amici mi ha rimesso al mondo. Tornare a pe­da­lare all’aria aperta poi ha fatto sì che anche la testa tornasse a viaggiare».

Come è stato il primo allenamento su strada?
«Per quanto riguarda le sensazioni fisiche non il massimo, ma a livello mentale è stato bellissimo. Per la prima volta non mi pesa pedalare ore e ore, allungo volentieri, ho proprio voglia di stare in sella. Dopo 2/3 settimane di uscite, dedicate soprattutto all’endurance, an­che il corpo ha iniziato a darmi segnali più incoraggianti. Con gli allenamenti indoor avevo mantenuto un buon livello di forza, ma avevo perso il fondo. Dopo aver aumentato la quantità, per un mese mi sono concentrato sul­la qualità: i test svolti al Centro Ricerche Mapei Sport a giugno ci hanno dato conferma che la forma stava crescendo abbastanza bene. Ho trascorso poi due settimane in ritiro in altura al Passo San Pellegrino, per finalizzare la preparazione in vista del 1° agosto. Farò lo stesso programma di Nibali: debutto alle Strade Bianche, poi Milano-Torino, Sanremo e Giro di Lombardia a Ferragosto, il mio primo vero test. Mi piace tantissimo e voglio far bene. Fa un certo effetto correre la classica autunnale per eccellenza il 15 agosto, ma è bello questo mischiare le carte delle corse. Verrà fuori un Lom­bardia molto più spettacolare, più aperto, tutti saranno a mille e vedrete quante sorprese: non sarà una stagione co­me le altre».

Questo è poco ma sicuro. Quanto ti sono mancate le corse?
«Tanto. Ormai mi conoscete, non sono uno capace di stare fermo, e non intendo solo in gara. Ho l’argento vivo in corpo, sono iperattivo, dopo l’allenamento non sono abituato a stare gambe all’aria tutto il pomeriggio. Senza obiettivi concreti non si può avere quella mentalità che ti scatena solo l’idea della competizione. Non vedo l’ora di attaccare il numero alla schiena, di rivedere i tifosi e di riprendere le abitudini della nostra vita che è fatta di viaggi, trasferte, fatiche, gioie e dolori. Il virus ha stravolto la no­stra quotidianità, nessuno di noi ne­gli ultimi anni ha mai avuto tanto tem­po libero. Stare a casa, senza far niente, non fa proprio per me. Per passare il tempo, nel periodo più duro, un giorno sono stato sui rulli per 11 ore consecutive, macinando 254 km e 10.400 metri di dislivello. Grazie alla piattaforma Zwift, dal bal­cone di casa ho scalato 10 volte abbondanti l’Alpe d’Huez, salendo più in alto dell’Eve­rest. All’indomani ero talmente stanco al punto da far fatica ad alzarmi dal letto. Non mi era mai capitato. Una follia, da non ripetere».

Cosa ti resta di quest’esperienza surreale?
«Mi ha insegnato a non dare per scontato nulla, a partire dal contatto con le persone a cui tieni. Non potendomi muovere per raggiungere la mia famiglia, mi sono sentito solo. Ora sto ri­scoprendo l’importanza della normalità, anche il semplice andare a prendere il caffè al bar è prezioso. Il cappuccino mi è mancato moltissimo, ma ormai ho resettato tutto e voglio guardare so­lo avanti. La vittoria al Trofeo Laig­ue­glia sembra sia avvenuta un secolo fa, la ricollego più alla vecchia stagione che al 2020. Adesso è ora di ripartire da zero, con un calendario super im­portante nel mirino, che mi piace da matti. A inizio stagione di solito scalpito in vista delle grandi corse, questa volta non c’è da aspettare, si comincia già al top e questo rende tutto ancora più bello».

Che rapporto hai con la paura? Tu l’hai provata sulla tua pelle quando hai avuto problemi al cuore, poi con la malattia di mamma, di recente con la pandemia...
«Sono uno pauroso e non mi vergogno a dirlo. Quando siamo stati sottoposti ai primi tamponi ad Abu Dhabi e ancora non si sapeva bene cosa fosse questo virus ho avuto paura, quando alla tv sentivo i numeri dei morti crescere in modo spaventoso ho avuto paura, sembrava sempre peggio. Nel 2017 quando sono stato operato al cuore ho avuto paura di smettere. È stato un anno pesante, brutto, avevo perso fiducia, facevo una fatica pazzesca, al Giro fu un disastro, mi staccavo da cento corridori. Alla fine ero triste, giù di mo­rale. Ma dopo una settimana era tut­to passato. Io ho paura di tante co­se, come volare in aereo, poi le af­fronto. Il mio incubo è il terremoto, a Brecciarola abbiamo vissuto quello dell’Aquila e quello di Amatrice. Non abbiamo avuto danni grossi ma abbiamo dormito in macchina per un bel pezzo. Ma ho paura anche dei temporali, sono sempre a disagio. Mamma Silvana? Lei continua le sue cure, non posso dire che stia bene ma lotta contro il tumore con la forza che la contraddistingue. Se avessi una bacchetta magica la guarirei».

In tanti vedono in te il dopo Nibali, il campione a cui il ciclismo italiano può affidarsi per il futuro.
«Sono il primo a pretendere tanto da me stesso. Vivo tranquillamente la po­polarità e la pressione crescente, quando riesco a fare tutto per bene non ho paura di prendermi le mie responsabilità. Perdo la tranquillità se ci sono im­previsti e non riesco a lavorare come da programma. Le aspettative non mi pesano, anzi mi stimolano e mi danno la carica. Per quanto riguarda i programmi, l’obiettivo principale resta il Giro d’Italia, ma c’è parecchio anche prima. Visto quanto è fitto il calendario è difficile puntare a una gara singola, meglio mettere nel mirino un periodo a cui arrivare al top. Per la corsa rosa la priorità sarà aiutare Vincenzo. Come? Dipenderà da come si evolverà la corsa: attaccando, tirando, facendo quel che ci sarà da fare per il bene della squadra... Correre il Giro in autunno, quando generalmente pensiamo alle va­canze e al riposo, sarà strano ma in questo anno in cui tutto è invertito va bene così e lo sto preparando al me­glio, come se fosse maggio. Certo, la conquista della maglia gialla mi ha proiettato in una nuova dimensione, ma il Giro riesce a darmi emozioni uniche. Gareggiare in Italia è speciale, farlo dopo questi mesi tribolati avrà ancora più valore. Così come lo è per me l’essere considerato un corridore del popolo, che appassiona la gente, come è lo Squalo».

Le Olimpiadi sono state rimandate al 2021, ma è stato confermato il mondiale in Svizzera adatto alle tue caratteristiche.
«Non ne ho mai corso uno, neanche nelle categorie minori. È un pallino che ho nella testa. Il percorso di Aigle - Martigny è duro, per scalatori, Vin­cen­zo sarà senz’altro il faro della nostra Nazionale, insomma ci sono tutte le carte sul tavolo per poterci puntare. In­sieme al Giro è un altro grande obiettivo che mi sono prefissato. Ho sempre “sentito” molto la maglia az­zurra, sa­rebbe un onore indossarla nel­la sfida iridata».

Come ti immagini la ripartenza?
«Non lo so, ma guardo ai bar e ai ristoranti e mi auguro che nel mondo dello sport possa succedere qualcosa di simile. All’inizio bisognava rispettare misure molto rigide per contenere la propagazione del virus, ora mi pare che si sia tornati a frequentare i locali come se nulla fosse. Ci siamo fatti mille paranoie, senza motivo, o almeno lo spero, visto che i contagi si sono ridotti notevolmente nonostante il distanziamento sociale ora sia ben più limitato. Do­vre­mo giustamente prendere delle precauzioni per non ritrovarci al punto di partenza, un po’ di paura c’è, soprattutto per le gare più in là, Giro compreso, ma ora è impossibile prevedere cosa succederà nei prossimi mesi».

Davanti all’emergenza, il ciclismo ha di­mostrato le sue fragilità. Fossi il presidente dell’UCI qual è la prima cosa che cambieresti?
«Questa è proprio una bella domanda. Mi metto nei panni dei corridori rimasti con il culo per terra, amici come Fausto Masnada che al primo anno nel World Tour, felice di aver fatto il grande salto, si è trovato da un giorno all’altro senza stipendio e con la preoccupazione che la sua squadra non avesse più lo sponsor principale. Tutelerei di più i corridori, senza dubbio. Non me ne intendo di economia, ma non esiste che una società possa dire a un suo di­pendente “da domani prendi il 20% di quanto avevamo pattuito”. Dietro all’atleta ci sono famiglie, spese e re­spon­sabilità. Inoltre, vedendo come sono andate le cose in altri paesi, il presidente dell’UCI sarebbe dovuto intervenire. Non è accettabile che ci fosse chi poteva allenarsi su strada e chi no».

In Italia la bicicletta sta vivendo un vero e proprio boom. Resta però il grande problema della sicurezza stradale.
«Torniamo al discorso della paura. In questo senso non sono un fifone, tutt’altro, ma da almeno due anni du­rante gli allenamenti ho paura e ho mo­tivo di averla. Esco sperando che mi vada bene, ma non si può vivere così. È un tema tanto grande, che non riguarda solo il nostro Paese. A mio avviso il problema non sono le leggi, ma i conducenti sempre più distratti. Quello che sta messaggiando e sbanda, quello che all’incrocio non si ferma, quello che non ti vede. Il metro e mezzo per il sorpasso sicuro è una battaglia fondamentale, un simbolo che ribadisce che abbiamo diritto di stare in strada e di non rischiare la pelle per la fretta o la prepotenza degli altri utenti».

Chiudi gli occhi. Siamo a Siena, è il 1° agosto e hai davanti a te la linea di partenza.
«Sono emozionato, la voglia di correre è davvero tanta. Quando mi alleno la testa è già là».

da tuttoBICI di luglio

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